Soprattutto durante la prima fase dell’emergenza
sanitaria si è molto sentito discutere di
smart working. Qualcuno ha esaltato questa forma di lavoro più flessibile
sostenendo che debba essere potenziata anche quando il Covid19 sarà solo un
brutto ricordo; altri, da subito, hanno manifestato qualche scetticismo in più.
Come qualsiasi fenomeno sociale, culturale ed
economico anche lo smart working
non lo si può adottare nella sua forma più estensiva senza che prima venga
seriamente valutato e regolamentato da tutti gli attori coinvolti: imprenditori,
lavoratori, classi dirigenti, ecc…
Già prima della pandemia la precarizzazione e la
discriminazione di genere in alcuni settori del mondo del lavoro è proliferata
senza che si sia tentato di arginarle. In questo illuminante articolo che Irena
Schiavetta ci propone possiamo trarre interessanti spunti di riflessione: il
passato non va dimenticato per non compromettere le conquiste che crediamo
acquisite e il nostro futuro.
i.b.
di Irene Schiavetta
L’Osservatorio del Politecnico di Milano definisce
lo smart working ”una nuova filosofia
manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e
autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da
utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. Ma
è tutto oro quello che luccica? Ed è veramente “nuovo” come sembra?
Ebbene, bisogna ricordare che a partire dagli anni
Sessanta è già esistito, in Italia, quello che oggi chiamiamo “smart working”, una
modalità di “lavoro agile” che interessava un ben preciso tipo di lavoratori:
le donne.
Le coordinate generali dell’occupazione femminile, in
quegli anni, erano legate indissolubilmente a una serie di tradizioni,
abitudini e convinzioni molto radicate nella società. Ad esempio, era prassi
comune che le donne, quando si sposavano, fossero licenziate alla nascita del
primo figlio (ma anche oggi, quante devono accettare un trattamento simile?).
Nello stesso tempo, gran parte del lavoro agricolo continuava a essere svolto
da loro, che dovevano quindi barcamenarsi tra la fatica nei campi e quella in
casa (compreso l’allevamento dei figli, visto che non esistevano adeguate strutture
per l’infanzia). La società italiana era ancora di stampo patriarcale, le donne
erano tenute a casa dal legame con i figli e la loro attività lavorativa era
considerata sempre “gratis data”, pur essendo pesante. La divisione dei ruoli
era rigida: l’uomo si preoccupava del reddito, la moglie era una casalinga. Se
poi tra le sue mansioni c’erano quelle, come detto, di contadina o lavoratrice
precaria, non erano che inevitabili conseguenze della sua “naturale”
condizione. Quindi, dovute.
Occorre considerare che nelle fabbriche, a partire
dalla seconda metà degli anni ’50, la meccanizzazione era andata avanti a passi
da gigante. Di conseguenza, soprattutto nel terziario e in particolari nei settori
industriali quali ad esempio la meccanica di precisione e la costruzione di
apparecchiature elettriche, gli operai qualificati potevano essere sostituiti –
con grande risparmio – da donne. Erano perfette perché costituivano una manodopera
flessibile, mobile, erano adatte a mansioni non qualificate e molto ripetitive,
che tuttavia richiedevano abilità, precisione, pazienza. Man mano che passavano
gli anni, quindi, soprattutto nelle aree urbane, le donne furono sempre più
spesso impegnate in lavori a domicilio che andavano dalla sartoria
all’assemblamento di ingranaggi elettrici, dalla costruzione di giocattoli alla
creazione di monili. Erano attività precarie e intermittenti, difficili oggi da
ricostruire dettagliatamente, ma che avevano un punto in comune: l’assenza di
ogni garanzia e tutela.
Anche le donne regolarmente assunte non se la passavano
meglio: nelle fabbriche spesso erano relegate nelle categorie e qualifiche più
basse e private di ogni possibilità di avanzamento di carriera, con
discriminazioni salariali (che nel mondo del lavoro femminile esistono ancora
oggi!).
A partire dagli anni Sessanta quindi questo antenato
dell’attuale “smart working”, il lavoro a domicilio, è stato comune tra le
donne. Spesso il reddito del capofamiglia non era sufficiente, ma
contemporaneamente la moglie doveva essere a casa a tempo pieno per seguire la
famiglia. Molte grandi aziende d’altronde attuavano un deciso decentramento
produttivo, per cui diverse fasi della lavorazione erano svolte tramite imprese
minori, fino al lavoro a domicilio, l’ultimo anello di questa catena, una
modalità lavorativa caratteristiche elevate di sfruttamento, ritmi di lavoro
massacranti e spesso condizioni igienico-sanitarie precarie per tutta la
famiglia (in caso di utilizzo di sostanze nocive nell’ambiente domestico).
D’altra parte, le stesse lavoratrici tendevano a
considerare positivamente l’enorme vantaggio di potere restare a casa senza
apparenti obblighi e imposizioni di orario, scambiando per libertà quella che
era invece l’espressione massima dello sfruttamento e dell’emarginazione.
Nel romanzo “La tabacchiera di Otto Schmitt” vediamo
la protagonista, Carmelina Spadafora, originaria della Calabria e trasferitasi nel
Nord Italia nel paesino di Colombano, costretta dalle circostanze a trovare un
lavoro a domicilio, per poter guadagnare qualcosa pur avendo una figlia in età
scolare e nessuna specializzazione. Non sarà la prima, né l’ultima delle
difficoltà che dovrà affrontare, dal giorno in cui, con un matrimonio
combinato, ha lasciato la Calabria per un viaggio interminabile…
Irene Schiavetta vive a Savona con il marito e i figli e insegna pianoforte presso il
Conservatorio di Cuneo, dove è vicedirettore. Ha scritto commedie brillanti,
racconti, il romanzo Le tre signore (Coedit, premiato in concorsi
internazionali); testi di letteratura (pubblicati da Atlas); cinque libri
gialli con Fiorenza Giorgi, fra cui Il mistero di San Giacomo (Fratelli
Frilli); il racconto per bambini L’Occhio di Bubuz (il Ciliegio). Ha
pubblicato inoltre testi di didattica musicale tra cui Primo Piano, Il
nuovo Centone (Carisch) e Mai troppo piano, Il Millione, Su e giù
per le scale, Pianopiùforte (Dantone).
La tabacchiera di Otto Schmitt è il suo ultimo lavoro letterario recentemente pubblicato
da Edizioni Il Ciliegio.