29/07/16

Non solo libri

Non solo libri, ma anche cinema. Dopotutto, il cinema, fin dall'avvento delle prime pellicole  si è alimentato di storie tratte dai libri, ma è successo anche il contrario. Ciò che accomuna le due forme di espressione è dunque sempre il desiderio innato dell'uomo di raccontare e raccontarsi.

The Dressmaker - Quando il diavolo si veste di rosso


The Dressmaker - Il diavolo è tornato (The Dressmaker) è un film del 2015 scritto e diretto da Jocelyn Moorhouse, basato sull'omonimo romanzo di Rosalie Ham.
Protagonista del film è Kate Winslet nel ruolo di Myrtle "Tilly" Dunnage, affiancata da Judy Davis, Liam Hemsworth e Hugo Weaving.


Allora, oggi vi parlo d'un film che ho visto l'altra sera a una rassegna estiva di quelle che ti propongono i film della trascorsa stagione a un prezzo abbastanza irrisorio, motivo per cui d'estate io mio marito e mia figlia ci spariamo minimo tre pellicole a settimana nell'ombrosa frescura della multisala di quartiere sostanzialmente deserta - eccetto quelle nove o dieci persone malate di cinema come noi. L'atmosfera in queste occasioni è un po' quella delle vecchie sale di paese, si parla a voce non tanto bassa fino a un secondo prima dell'inizio e c'è sempre qualche bambino che non ha capito e chiede spiegazioni a gola spiegata nel bel mezzo delle scene clou.
Il film (scritto e diretto da Jocelyn Moorhouse e basato sull'omonimo romanzo di Rosalie Ham) s'intitola The Dressmaker – Il diavolo è tornato e si svolge in Australia negli anni '50. Siccome l'Australia e gli anni '50 sono tra le mie condizioni esistenziali favorite, sulla carta c'erano buone probabilità che il film mi piacesse, ed ecco che in effetti mi è piaciuto. C'è Kate Winslet che fa la modista a Parigi e torna nel desolato avamposto del deserto australiano che l'ha vista nascere, indesiderato frutto della colpa commessa dalla madre (una come sempre fantastica Judy Davis) con un maggiorente del posto, infido, malvagio e ipocrita come molti maggiorenti di paese degli anni '50.
Sebbene all'inizio venga spontaneo pensare che lei sia tornata per prendersi una rivincita mostrando i propri favolosi outfit alle inguardabili matrone locali, nella sua riapparizione tra quelle misere capanne e polverose viuzze c'è in effetti qualcosa di più: cacciata dal paese appena undicenne perché accusata dell'assassinio di un suo compagno di giochi (benché non proprio di giochi si possa parlare, quanto piuttosto di deliberati atti di bullismo lucidamente perpetrati ai danni dell'anello debole, la piccola illegittima senza santi in paradiso) Kate in realtà è tornata per dimostrare la propria innocenza agli altri e anche a sé stessa, visto che di quell'evento così traumatico la sua memoria non ha serbato traccia alcuna.
Per questo, dopo un'inutile serie di tentativi d'indurre la madre a raccontare (frustrati dalla ferrea svagatezza di quest'ultima, che finge di non riconoscerla per metà del film) l'indomita ragazza ha l'idea di procurarsi le informazioni che le servono vendendo la propria abilità di modista alle infagottatissime signore e signorine che le girano intorno a cigli in su - e la trasformazione di queste allampanate e riarse ragazzotte in splendidi ancorché temporanei uccelli del paradiso dagli stravaganti piumaggi bianchi, neri e fucsia è una delle improvvise magie del film. Armata solo di ago e filo e del proprio mento deciso Kate riesce così a ricucire anche la propria storia: che, com'è ovvio, non la vede colpevole ma vittima della compatta tessitura di bugie e sortilegi dei benpensanti locali, ansiosi di far fuori il diverso, il corpo estraneo conficcatosi per sbaglio nel ventre molle della comunità.
Dopo aver smascherato chi sapeva e non ha parlato o, peggio, chi sapeva e ha deliberatamente alterato la verità pur di espellerla, a Kate, rimasta trionfalmente sola sulla scena del crimine - e cioè l'intero villaggio, una decina di capanne di legno in tutto, i cui abitanti vestiti a festa si sono allontanati in massa per recarsi nel paese vicino ad assistere a una competizione locale - non resta che sciogliere uno dei suoi campioni di lucida seta rosso sangue fuori dalla porta della piccola casa sulla collina: cosparso di benzina e dato alle fiamme, il nastro di fuoco si snoda tra quelle pretenziose catapecchie come un serpente affamato e vorace, non lasciando in piedi che uno scheletrico gruppo di rovine. Lei, intanto, ha già preso il treno che la porterà via per sempre.
A me di questo film sono piaciute: la scena in cui Kate convince il tormentato poliziotto locale a prestarle aiuto facendogli balenare la promessa d'un meraviglioso boa di struzzo rosso; lo stesso poliziotto colto in relax coi piedi sul tavolo e abbigliato di tutto punto con berretto, cinturone, divisa e scarpette di raso rosa da ballerina allacciate dietro (data l'inquadratura, i piedi si vedono per ultimi e finiscono per occupare tutto lo schermo, melliflui e irresistibili come il muso di Kaa nel Libro della giungla della Disney); quando Kate torna nella lurida casetta dove la madre vive in stato d'abbandono e si dà da fare a ripulire tutto (come direbbe Guido Gozzano, in me rivive l'anima d'una governante inglese dell'Ottocento, lo so); i vestiti che indossa, a dominante rosso bordeaux, il mio colore preferito, così orgogliosamente piccoloborghese; l'Australia in sé per sé, che dev'essere un posto da pazzi; la battuta “Non parlare a me d'imbarazzo”, pronunciata dal figlio unico di madre vedova; i dolcetti all'hashish e l'innocente scatola di latta a fiori in cui vengono portati in dono; il sorriso che aleggia sulle labbra della vecchia signora addormentata mentre il marito, un insopportabile tanghero, affoga inascoltato nello stagno dietro casa. 
Ma soprattutto mi piace l'allegra ferocia con cui si raccontano il dolore e il sangue nascosti sotto l'implacabile perbenismo di questo paesino australiano degli anni '50 e dei tantissimi paesini australiani che ci circondano. In qualcuno, forse, ci abitiamo pure noi.
Alla prossima.

Paola Rocco


22/07/16

La bambina vestita di rosso

Con Paola Rocco, tempo fa, ci siamo confrontati con l'idea di far partire una rubrica settimanale. L'avrebbe curata lei. Una bellissima idea che però, in quanto curatore del blog, non sono riuscito ancora a far partire per una serie di motivi sia logistici sia prettamente editoriali. Paola, intanto, mi aveva già scritto un primo contributo. Un contributo che rendeva omaggio al grande Bud Spencer, ma lo faceva partendo partendo da lontano: da una bambina vestita di rosso. 
Non potevo non proporvelo.
i.b.
Ciao Bud


Per una serie di motivi ho pensato di scrivere questo breve articolo pensando alla bambina vestita di rosso: sta su un muro di pietra vecchia dalle parti di piazza Castello, a Padova. Le volano intorno colombe, o forse gabbiani, bianchi. Il nerofumo e le scritte non riescono ad attenuare l'espressione del viso, gli occhi intenti, il colore squillante del vestito, il lampo candido delle ali degli angeli in forma di pennuti grassocci che le si affollano intorno. Se ne sta lì ogni giorno, angelo fuligginoso anche lei, a salutare in punta di piedi qualcuno o qualcosa. A me è tornata in mente quand'è morto Carlo Pedersoli, il Bud Spencer dei film di quand'ero piccola, quelli con gli schiaffoni inverosimili, i capitomboli, le tavole spezzate sulla schiena dei cattivi come biscotti, i piattoni di pasta e fagioli, la smilza figuretta di Terence Hill, ancora lontano dall'abito talare e stretto nella maglietta sdrucita, nei jeans impolverati, accanto al compagno fuori misura dal vocione fondo. Che coppia erano: uno sottile, insistente, malizioso, in fondo un po' molesto, una specie di zanzara sexy con gli occhi azzurri; l'altro barbuto, ponderoso, ingombrante ma fulmineo, gigantesco ma capace d'insospettabili delicatezze. Con Pedersoli, ha scritto Saviano, se ne va un pezzo dell'infanzia di chi è stato bambino in quegli anni un po' strani, dopo il boom e prima dell'austerity, gli anni dei cinema di quartiere e delle raccolte di figurine. Si è “spento serenamente”, come si dice, e il figlio ha raccontato che prima di morire ha detto grazie. Forse non c'entra molto, ma mi faceva piacere salutarlo con questa figuretta smagliante e assorta dello stupore assorto dell'infanzia, circondata da ali piumose. Le ali degli angeli.

Paola Rocco


18/07/16

Sul senso del "viaggio": alla scoperta di se stessi e degli altri.

Da sempre il "viaggio" è stato interpretato come metafora della vita. Molti filosofi e scrittori si sono interrogati sul significato intimo, e non solo antropologico e sociologico, che il "viaggio" ha avuto e continua ad avere nei popoli che abitano la Terra. Danilo Di Gangi, che di chilometri sotto le suole delle scarpe ne ha calpestati tanti, prova a fornirci quella che è la sua visione di scrittore affamato del mondo.

Da sempre si disserta sul senso del viaggio. Che cosa è che muove un viaggiatore ad abbandonare il proprio luogo di appartenenza e avventurarsi verso “l’altrove”? Irrequietezza, voglia di libertà, ricerca di solitudine, intelligenza emotiva, bellezza dei paesaggi, semplice curiosità, creazione di nuove identità?
All’inizio di un viaggio spesso c’è un sogno, un qualcosa che stimola la fantasia: un nome, una strada, una montagna, un mare, un deserto, una storia. Tuttavia, viaggiare significa anche adattarsi all’ambiente, interagire con esso, ritrovarsi vulnerabili e insicuri, nudi. E proprio in virtù di questa nudità si è pronti a cementificare lungo il percorso rapporti di reciprocità con ciò che ci circonda, esseri umani e non. Durante il viaggio le qualità migliori dell’individuo riemergono prepotentemente: generosità, grandezza d’animo, lealtà, onestà. Parimenti si sviluppano le capacità decisionali e di autonomia, basate sull’efficacia delle proprie azioni e delle proprie scelte. Viaggiare significa sentirsi stranieri ovunque ma uguali agli altri: discendenze e cariche sociali sono termini che non appartengono al vocabolario di un nomade.
Il senso del viaggio inizia perciò dall’approccio al viaggio stesso, dalla consapevolezza che il disagio sarà un compagno di peregrinazioni, che fatica fisica e fatica mentale procederanno a braccetto e tanto più saranno uniti tanto più grande sarà la gioia dello stato d’animo  che si raggiungerà.
Il meglio non è quindi dettato dalla ricerca“dell’altrove” ma dal raggiungimento di uno stato d’animo in grado di sublimare se stesso. L’obiettivo dello scrittore sarà poi quello di essere in grado di far ri-vivere al lettore lo stesso “stato d’animo” attraverso le pagine del libro.
La natura svolge un ruolo fondamentale in tutto ciò poiché luogo per eccellenza di stimoli, emozioni e sensazioni che rappresentano un modo di essere dimenticato dall’uomo.  La natura è maestra di vita ed espressione del divino. La natura ci mostra cosa sono evoluzione e mutamento, ci ricorda, attraverso la sua imprevedibile potenza, che non tutto è dominabile da parte nostra. Bene lo sapevano le antiche popolazioni nomadi che la assecondavano e convivevano con essa. Purtroppo, la nostra inesausta sete di dominio ci ha portato a tradirla e a tradire noi stessi.
Che significa, oggi, il nomadismo? Proprio quando l’extracomunitario viene a inurbarsi per perdere tra di noi la sua identità, esso significa ritrovare la storia antica dell’uomo. Storia di movimenti, di migrazioni; storia di conflittualità con le popolazioni stanziali, di rinuncia al superfluo, di costrizione all’indispensabile. Il nomade ha perfino divinità non rappresentabili perché non trasportabili; decora il proprio corpo perché non porta maschere, che pesano e ingombrano; ha una frugalità assoluta perché anche le scelte gastronomiche gli sono impraticabili; ha un rapporto privilegiato con gli animali e l’ambiente perché le tracce, gli odori, i segni gli sono condizioni di vita; conosce le stelle e il vento perché ogni movimento ne è condizionato. Ritrovare questo stato d’animo significa riconnettersi con l’energia che da vita all’universo tutto, ritrovare il giusto senso delle proporzioni e dei propri limiti, ricollocarsi nell’immensità del tutto, far sì che il viaggio diventi mediazione tra Velato e Rivelato.
Ecco che il senso del viaggio diviene l’esperienza del continuum infinito presente, il tempo in funzione dello spazio, del procedere, del presente, passo dopo passo. La percezione ordinaria del tempo e dello spazio si annullano e si compenetrano: il viaggio diventa un “volo sciamanico”, al di là della sua misurazione e quantificazione.
Ogni percorso, ogni tragitto può farsi una storia, un racconto, una riconquista di una scoperta del sé più profondo ma, soprattutto, ogni viaggio è un universo di emozioni circondato da spazi e da silenzio. Da ciò nasce una predisposizione alla trasformazione e ogni peregrinazione diviene motivo per non essere noi a voler cambiare il mondo ma il mondo a cambiare noi.
Viaggiare e “viaggiare attraverso i miei libri” è un invito a rendersi disponibili per questa trasformazione, per conoscere la storia e la geografia di luoghi lontani, ricchi di cultura, tradizioni e insegnamenti, per ritrovare lo stupore del cammino all’interno di una natura ignota e miracolosa, per osservare, respirare e assorbire l’incanto del mondo e, leggendo e vivendo il viaggio, i pensieri di ognuno serviranno a far girare la Grande Ruota della Vita.



Danilo Di Gangi

L'ultimo libro di Danilo Di Gangi pubblicato con Edizioni il Ciliegio si intitola Nepal fra terra e cielo.

Danilo Di Gangi è nato a Cuneo, ove risiede, nel 1963. Scrittore, viaggiatore e insegnante, ha pubblicato per le edizioni L’Arciere: Cieli d’infinito. Mongolia, terra senza tempo (2003); Il Gioiello di neve. Kailash, l’essenza del Tibet (2004); Fra barbari e dei. La vera politica cinese in Tibet (2008). Per le edizioni Campanotto: Siberia (in)contaminata (2010). Per le edizioni Il Ciliegio: Viaggio al limitare del tempo. Un racconto esoterico (2010); Lungo come l’Indo (2012). Per le edizioni Pietre Vive: Forse spazi (2013), raccolta di poesie e immagini.

13/07/16

Recensione del romanzo “Neve e piume” a cura di Livia De Pietro

Il libro Neve e piume si presenta con un linguaggio semplice, fresco, e accessibile a tutti, adulti e ragazzi. La vicenda narrata è di stampo pedagogico perché offre spunti eccellenti per veicolare messaggi indubbiamente elevati sia dal punto di vista estetico che didattico. Sintomatica è la frase: “Si ha paura di entrare in contatto col dolore perciò lo si evita, ma ci si adopera perché altri se ne facciano carico” la quale caratterizza tutto l’impianto del libro. La vita di Ofelia, infatti, ruota intorno alla paura, inseparabile compagna del dolore poiché l’evento doloroso obbliga sempre ad affrontare forzatamente l’ignoto di una nuova condizione esistenziale che si pone di fronte. La perdita, in genere, già di per sé dolorosa, obbliga ad affrontare il nuovo e quindi il trovarsi faccia a faccia con la paura del cambiamento esistenziale che si deve affrontare. Il dolore è indissolubilmente legato al sentimento della “perdita” di una persona cara fatta anche di riferimenti, punti fermi e ricorrenti nelle nostre vite. In qualunque sfera (sociale, professionale, affettiva) la perdita di questi riferimenti sicuri destabilizza e provoca la sensazione di perdere, insieme a ciò che non è più, anche se stessi. Il binomio paura-dolore dà senso alla vita ed è per questo che quando Ofelia si ritrova spaesata a dover ricostruire, neanche sa bene come, in ogni caso, la sua vita, fluisce nella penna dell’autrice una dedizione perseverante a queste due dimensioni che generano nel lettore un potenziale emotivo esteriorizzato come energia costruttiva ed esplorativa.

08/07/16

Il quartiere di Leoncavallo: riflessioni a margine d'un giro turistico

Prosegue il viaggio tra i luoghi del romanzo La carezza del ragno

Il quartiere dove abita Leoncavallo è quello di san Giovanni ed è il mio quartiere di Roma d'adozione: a San Giovanni sono andata a scuola, attraversando mezza città sullo sferragliante trenino della Casilina (all'epoca ancora dotato di sorprendenti sedili di legno in tutto simili a quelli d'un qualunque treno de La casa nella prateria) e sempre qui ho abitato per la prima volta da sola, anche se in due case diverse.
La prima, quella della terrazza con i mirtilli alcolici, è svanita quasi subito, inghiottita nell'occhio del ciclone d'un acrimonioso divorzio, reso ancor più acrimonioso dal fatto che non c'era in realtà mai stato nessun matrimonio; la seconda, a tutti gli effetti la casa del mio cuore, alta sui tetti e con la finestra della cucina che guardava direttamente sulla basilica che il sole del tramonto tingeva di rosso, ha visto la nascita della piccola Julia, si è immediatamente dopo rivelata troppo piccola ed è stata lacrimosamente venduta, ma non credo ci abbia dimenticato, come noi non la dimenticheremo.

05/07/16

La vita dei giovani è nei loro libri: Alex Astrid come Sofia Viscardi


Succede che un libro si intitoli proprio così: succede che lo pubblichi Mondadori, che lo abbia scritto una ragazza di diciotto anni di Milano, Sofia Viscardi già nota come youtuber, e che questo libro sia uscito il 24 giugno di quest’anno. E succede che un giorno prima, esattamente il 23 giugno, sia uscito un altro libro intitolato Vuoi conoscere un casino? scritto da una diciassettenne, Alex Astrid, che abita in una cittadina alla periferia di Milano e che questo libro sia stato pubblicato da Edizioni il Ciliegio. Succede, infine, che le analogie non si esauriscano qui, ma proseguano anche nelle tematiche affrontate nei libri in questione. Del resto tutti sanno che è l’arte, e la cultura in generale, a riflettere come uno specchio la società che ci circonda. Una società che i giovani di oggi, con i loro grandi e piccoli problemi, vogliono scoprire e raccontare in prima persona, senza filtri, senza paura di dover dare delle spiegazioni imbarazzanti ai propri genitori, professori, educatori.
Ai loro occhi (intendo quelli dei ragazzi poco più che adolescenti) il mondo è pieno di opportunità e di sofferenze inimmaginabili. Anche se queste opportunità si riducono a una gita scolastica in una città europea e le sofferenze ai fraintendimenti tra fidanzati postati nelle chat dei social. Alle volte è sufficiente una virgola sbagliata per cambiare il senso di una frase, una visualizzazione senza risposta per scatenare la tragedia. Il sentire dei giovani è sempre amplificato, ma non per questo meno intenso di quello degli adulti che ogni tanto dovrebbero ricordarselo.

04/07/16

Dal fantasy all'urban-fantasy, l'incontro della magia con la tecnologia

«Lo sapevate?» esclamò Harry. «Voi sapevate che io sono un mago?»
 Harry Potter e la Pietra Filosofale


Antonio Carmine Napolitano
E se nella tua squadra di nuoto si nascondesse un ragazzo con le branchie o la tua scuola fosse presa d’assalto dai goblin o il tuo cantante preferito fosse in realtà un mutaforma? Insomma, e se nel nostro mondo entrasse la magia? Saremmo di sicuro finiti tutti quanti in un romanzo urban-fantasy! Un sotto-genere del fantasy che ha conquistato sempre più spazio nel cuore dei lettori, grandi e piccini, che assistono entusiasti allo stravolgimento della realtà moderna invasa dal fantastico.
La peculiarità di questo genere risiede proprio nella sua ambientazione: l’epoca contemporanea, il mondo reale, la società urbana. Oggigiorno questo filone è uno dei più amati e sfogliati, nonché uno dei più tradotti in lungometraggi e serie televisive di successo. Molti di noi, infatti, vi sono entrati in contatto anche inconsapevolmente. Chi non sorride a sentir nominare Harry Potter? A quale adolescente non batte il cuore a ricordare l’amore tormentato di Bella ed Edward? Quale accanito lettore non conosce Mo Lingua di Fata? Chi ha dimenticato Buffy l’ammazzavampiri?
Numerosissime sono, però, le sfumature che rendono questo sottogenere ancora più affascinante e variegato. Oltre l’ambientazione e l’epoca di narrazione, influiscono sulla sua catalogazione la segretezza o meno del mondo magico, la sua pregressa esistenza o il suo allontanamento dal genere umano; e ancora il tipo di magia o di tecnologia, la presenza di determinate razze fantastiche, la contaminazione mitologica o soprannaturale. Così tanti colori che è impossibile non restare intrappolati tra le pagine di un romanzo del genere.
Ed è proprio quello che è successo a me! Prima come lettore e poi come scrittore con il mio primo romanzo edito da il Ciliegio, il Mutafavole e l’Ombra del Primo Buio, che ben rappresenta un esempio di urban-fantasy nel quale è possibile trovare diverse caratteristiche del filone.
Come accennato prima, il cardine di un romanzo urban-fantasy resta l’ambientazione: nella saga del Mutafavole, per esempio, la realtà quotidiana del giovane protagonista, viene completamente scombussolata da creature immaginarie di ogni sorta mantenendo, però, una stretta correlazione con la società circostante, le sue regole e il flusso del tempo naturale. Ed è così, che Dante, muovendosi tra le strade di città come Torino, Praga, Lione, Londra e Bruxelles, entra in contatto con lo “straordinario” saltato fuori dai libri di scrittori particolarmente talentuosi che lo trascinano in situazioni bizzarre attraverso un’avventura ricca di colpi di scena ed emozioni.

Allora? Che cosa ci fai ancora qui? Corri a scegliere un titolo in libreria! Lascia che la magia invada le strade della tua città, la tua cameretta, la tua fantasia!


Antonio Carmine Napolitano


Antonio Carmine Napolitano è nato a San Paolo Bel Sito (NA) il 2 Giugno 1988. Si è laureato presso la Sapienza di Roma in Scienze della Moda e del Costume, un’innovativa interfacoltà tra Lettere e Filosofia ed Economia. Terminati gli studi, nel 2011, è stato selezionato per un Master in Styling e Comunicazione presso il prestigioso Istituto Marangoni di Milano. Ha iniziato la sua carriera professionale come Stylist e Digital Image Coordinator prima per la Dolce&Gabbana e in seguito per la DSQUARED2, per giungere a un’esperienza nel settore Digital Marketing e Comunicazione presso la Frankie Morello Milan. “Il Mutafavole e l’ombra del primo buio” è la sua prima opera letteraria.