14/02/18

Ecco perché scriviamo libri

La letteratura non è la realtà, ma, se è buona letteratura, ha l’innegabile virtù di saperla spiegare. Ha la capacità di sciogliere i nodi ingarbugliati della quotidianità. La letteratura ammanta di emozioni e significati quei nodi: ce li svela. Ed è un po’ quello che è accaduto a Nicole Alice Masieri, studentessa del Corso di laurea in servizio sociale dell'Università di Firenze, dopo aver letto il romanzo di Paolo Pajer Per altre vite. Un libro che le ha lasciato così tanto, che nel rispondere all’autore ha scritto un lungo commento che vale più di molte recensioni formali. Per gentile concessione di Nicole, lo proponiamo integralmente. Sono pagine come queste che ci rendono orgogliosi di fare ancora gli editori.

i.b    



di 
Nicole Alice Masieri

Buongiorno Paolo, se non sono troppo informale le vorrei scrivere dandole del “TU” in visione del nostro futuro rapporto tra colleghi al termine dei miei studi. Ho impiegato più tempo di quanto pensavo a leggerti, mi sono soffermata su molti punti, ci ho riflettuto e me li sono appuntati. Forse il mio commento sarà il più lungo che avrai mai letto sul tuo libro “Per altre vite”, ma ci tengo a esprimerti tutto ciò che ho percepito sia sul lato professionale che personale.

Nelle prime pagine ho rivissuto in parte l’ultimo tirocinio della triennale: l’ufficio, l’attesa, la domanda e l’ascolto partecipato. Una frase che mi ha colpito molto, e che nella mia esperienza, seppur breve, ho notato essere di grande importanza è: “buona parte della moneta più preziosa con cui ci remunera il tempo: i ricordi”. Tempo e ricordi, hanno un legame apparentemente indissolubile, fino a quando la malattia non si impossessa dei ricordi, delle emozioni, del passato e dei legami.

Molte volte, durante il tirocinio, mi domandavo quale fosse il motivo per cui le persone all’interno dell’ufficio si sentissero al sicuro, seppur non avessero mai visto quel posto e conosciuto l’assistente sociale. Mi ha fatto sorridere ritrovare questo mio dubbio nel pensiero di Marco. Vero è che l’ufficio è un luogo in cui le persone vengono accompagnate alla risoluzione dei loro problemi, il più possibile accogliente, ma in molti casi, come la cronaca ci comunica, sono luoghi che si sono macchiati di sangue, di dolore e di paura. 

Ho ritrovato nel libro riferimenti rispetto all’attuale situazione che ci troviamo ad affrontare, la povertà, la mancanza di lavoro che va a colpire un’altra fascia di persone, detta zona grigia. La situazione di svantaggio ad oggi, colpisce anche coloro che hanno sempre avuto un’occupazione, ma che a causa della crisi del 2008 della quale ancora oggi sentiamo gli strascichi, piccole e medie imprese o per evitare il fallimento o a causa del fallimento hanno licenziato un gran numero di lavoratori. Disperati cercano aiuto attraverso i servizi sociali, che purtroppo non hanno le risorse per accogliere tutta la domanda. Mi è capitato spesso di provare frustrazione quando mi sentivo inutile, inerme di fronte al bisogno di una persona che cercava nel servizio solo un modo per far sopravvivere la propria famiglia, ancora prima di se stesso.

Ho colto molto spesso l’empatia di Marco, la sua capacità di saper ascoltare e di rispettare in silenzio lo spazio dell’altro. È altrettanto messo in evidenza come il lavoro dell’assistente sociale è estremamente collegato alla rielaborazione di tutto ciò che vede e ascolta durante una giornata di lavoro o nell’arco di un mese; rimettendo in ordine i pezzi sparsi per creare un quadro tangibile delle situazioni e ritrovarsi a volte di fronte a contesti diversi da come si era immaginato. Il tutto cercando di stare nei tempi, nelle scadenze e soprattutto evitando il burnout.

Il caso della piccola Alice è molto simile ad una situazione che ho conosciuto durante il mio tirocinio: l’attesa che succeda qualcosa di spiacevole e/o di grave per poter intervenire. È una condizione in cui si trovano molti bambini, a mio avviso paradossale, alla quale non ci si dovrà mai abituare. La storia della piccola Alice e di suo padre Vittorio mi ha fatto pensare a come nei libri venga spesso scritto dell’importanza di instaurare un solido rapporto di fiducia tra operatore e utente, ma che, nel lavoro pratico, non sempre funziona in questo modo quando ci si trova difronte a situazioni di violenza.

Ho apprezzato inoltre come in poche righe descrivi la percezione che le donne maltrattate hanno nei confronti degli uomini maltrattanti. E come, non tanto lontano da Marco, aveva il chiaro esempio di quella trappola psicologica, ciclica che si era impossessata di Selene. Un altro tema a cui sono particolarmente interessata è la violenza assistita, nel libro la definisci “mina antiuomo”, penso che tu abbia colto completamente ciò che provoca nell’immediato e negli anni, imprigionando futuri adulti tra i propri fardelli di dolore e sofferenza.

Ho apprezzato moltissimo il racconto del vissuto di Marco: sberle, pugni, alcol, fumo, sogni, sorrisi immaginati e infine l’allontanamento. Il suo vissuto mi ha fatto riflettere sul fatto che molte volte ci si scorda che l’assistente sociale è prima di tutto una persona, con la sua esperienza di vita, più o meno felice, più o meno dolorosa e che per poter progettare l’aiuto per l’altro deve mettere in sospeso la sua vita privata.

Ti devo confessare che mi hai fatta commuovere nell’ultima parte del libro, il racconto di Claudio, dell’amore, della passione, del passaggio tra “il prima e il dopo”, della ricerca, del ritrovamento ed infine della scelta consapevole della morte. Inevitabilmente il mio pensiero si è spostato su Fabiano Antoniani, conosciuto come dj Fabo, che ha cercato la libertà in un Paese non suo, come Adele. Il dolore delle persone che hanno accompagnato in questo percorso Fabiano e Adele, consapevoli che da quel viaggio sarebbero tornati senza qualcuno, con un bagaglio colmo di dolore, rancore, sensi di colpa. Ma peggio, forse, è stato rivivere tutte quelle emozioni all’interno di un Tribunale, aspettando di essere giudicati da quello che è stato fino a quel momento uno “Stato sordo”.

Dopo aver scritto più che un commento un poema, vorrei congratularmi con te. “Per altre vite” penso che sarebbe estremamente utile per tutti gli studenti che decidono di intraprendere il percorso che li porterà a diventare assistenti sociali, aiutanti di mestiere, al fine di comprendere, almeno in parte, come questa professione sia allo stesso tempo difficile e appagante. Come gli occhi pieni di spensieratezza di Alice e la dipendenza di Vittorio siano situazioni che spesso vanno a braccetto. Come saper semplicemente ascoltare, senza domandare troppo, aspettando, a volte, sia importante per risolvere insieme i problemi. Come l’autodeterminazione di Helga racchiude tutte quelle persone che dentro se stesse hanno già la soluzione, ma attraverso gli strumenti dell’assistente sociale riescono a conquistare, riscoprire il controllo sulla propria vita.

Marco è il collega che spero di incontrare nel mio futuro lavorativo, è il collega che spero mi possa affiancare nei primi momenti in cui mi troverò a tu per tu con il lavoro pratico dell’assistente sociale. Marco è il collega con il quale mi confronterò per risolvere i miei dubbi o semplicemente per accertarmi di stare facendo un buon lavoro.

Sono libri come questi che mi danno la spinta e la voglia di lavorare subito sul campo e mettere in pratica ciò che ho studiato in questi lunghi cinque anni universitari, scoprendo e imparando continuamente.
Anche se avrei preferito farteli di persona, Complimenti Paolo!






Paolo Pajer è assistente sociale e scrittore: ha pubblicato Il punto estremo - Erga Edizioni, 2012; pubblicherà a ottobre 2017 per Edizioni Il Ciliegio il romanzo Per altre vite, una storia che ha per protagonista proprio un assistente sociale.

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