30/10/21

Alla riscoperta dei Cavalieri Templari: suggestione senza tempo grazie al romanzo di Giovanni Corti “La corona della cittadina Eufemia”

L’ultimo romanzo di Giovanni Corti, un giallo ricco di colpi di scena, ruota intorno a un mistero che risale ai tempi della Quarta Crociata e a una preziosa reliquia, bottino di guerra dei Templari. Ma perché i Cavalieri Templari continuano a emanare un fascino esoterico che cattura l’attenzione della letteratura e del cinema? Una domanda alla quale risponde Elaine Tralli in questo interessante articolo scritto in esclusiva per Il Ciliegio.  

 i.b.

I Cavalieri Templari e la loro storia riscuotono da sempre un immenso fascino: basti pensare alla nutritissima filmografia e bibliografia al riguardo. Ma cosa suscita tutta questa ammirazione? I motivi sono molteplici, ma è bene ricordarne principalmente due: anzitutto, l’innegabile attrazione esercitata dalla figura, già considerata “anomala” al tempo, del monaco - guerriero, con tutte le sue contraddizioni che non staremo a spiegare in questa sede; in secondo luogo, la fine violenta dell’Ordine, con la condanna e il rogo di Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro, e del Precettore di Normandia Geoffrey de Charnay, eseguita l’11 marzo 1314. Da ricordare che Papa Clemente V, che aveva decretato la soppressione dell’Ordine (bolla Vox in excelso, 22 marzo 1312), morì solo un mese dopo e che Filippo IV di Francia (detto “Il Bello”), artefice primo del processo ai Templari con lo scopo di incamerarne, in parte, l’immenso patrimonio, morì il 29 novembre dello stesso anno. Da qui il fiorire di leggende sul potere “oscuro” dei Templari, riattizzate qualche secolo più tardi dallo scrittore massone Andrew Michael Ramsay, che nel 1737 scrisse una storia della Massoneria nella quale i Templari avevano un ruolo molto importante a partire già dal periodo delle Crociate, durante il quale essi avrebbero elaborato dei “segni segreti” utili al riconoscimento in un ambiente ostile; occupando il tempio di Salomone sarebbero inoltre diventati i custodi di quella “sapienza segreta” ereditata poi proprio dai massoni. Tutto ciò ha contribuito non poco a creare quell’alone di segretezza e di mistero che tutt’oggi circonda la storia dei Templari.


La questione delle reliquie e il vergognoso saccheggio di Costantinopoli

La vicenda narrata nel testo ci riporta in varie epoche, prima fra tutte alla Quarta Crociata (che di “Crociata”, a ben guardare, aveva ben poco) e agli anni immediatamente successivi. Essa fu indetta da Papa Innocenzo III con lo scopo di liberare la Terrasanta, ma si concluse con l’ignobile saccheggio della capitale dell’Impero bizantino, Costantinopoli (1204) a causa dell’invischiamento dei Crociati nelle vicende della Repubblica di Venezia e nelle questioni dinastiche bizantine. Durante il saccheggio furono trafugate dalla città moltissime reliquie, che finirono sparse per l’Europa, spesso divise in pezzi. Ed è proprio un’importantissima reliquia recuperata da un Cavaliere del Tempio in questo periodo a scatenare gli avvenimenti descritti nella storia, che però si svolge in epoca contemporanea, precisamente nel 1978: il rapimento del figlio di un imprenditore porta, grazie alle indagini coscienziose di un Maresciallo dei Carabinieri, a scoprire collegamenti con una storia ben più vasta, che protende le sue radici non solo verso la Quarta Crociata, ma anche all’epoca napoleonica, arrivando all’Imperatore corso in persona. Cosa nasconde la corona trafugata dal capo della statua di Sant’Eufemia, nel paesino di Oggiono, nel Lecchese? Perchè Napoleone in persona se ne vuole impossessare? E perchè, secoli dopo, il mistero della Corona, caduto nell’oblio, torna a far parlare di sè?

Di certo vi è solo un fatto: tralasciando, per un momento, esoterismo e misticismo, viene strano pensare che proprio quelle categorie che ideologicamente rifiutano ogni collegamento con la religione, come i post-rivoluzionari francesi e i brigatisti rossi (ebbene si, ci sono anche loro) cerchino strumenti di potere derivanti da essa. Quasi ad ammettere che, in fondo, la ricerca di qualcosa di superiore, magico o divino che sia, è insita in ognuno di noi. Senza eccezione.

 Elaine Tralli


Giovanni Corti è nato a Oggiono (Lecco) nel 1955. Con il Ciliegio Edizioni, oltre a La corona della cittadina Eufemia, ha pubblicato i romanzi: Azzurro Marco; A bello, peste et fame libera nos domine; Il re che verrà; 4 + 1 = 5 Cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia; Occhioperocchio. 



Elaine Tralli, nata in Irlanda nel 1983, si è laureata in Storia antico-medievale presso l’Università degli Studi di Milano nel 2008 con una tesi intitolata Una fonte per la storia della guerra medievale: l’Anonimo Cumano (sec. XII).

 

13/01/21

Lo "Smart working" esisteva già cinquant’anni fa!


Soprattutto durante la prima fase dell’emergenza sanitaria si è molto sentito discutere di smart working. Qualcuno ha esaltato questa forma di lavoro più flessibile sostenendo che debba essere potenziata anche quando il Covid19 sarà solo un brutto ricordo; altri, da subito, hanno manifestato qualche scetticismo in più.

Come qualsiasi fenomeno sociale, culturale ed economico anche lo smart working non lo si può adottare nella sua forma più estensiva senza che prima venga seriamente valutato e regolamentato da tutti gli attori coinvolti: imprenditori, lavoratori, classi dirigenti, ecc…

Già prima della pandemia la precarizzazione e la discriminazione di genere in alcuni settori del mondo del lavoro è proliferata senza che si sia tentato di arginarle. In questo illuminante articolo che Irena Schiavetta ci propone possiamo trarre interessanti spunti di riflessione: il passato non va dimenticato per non compromettere le conquiste che crediamo acquisite e il nostro futuro.   

i.b.

di Irene Schiavetta

L’Osservatorio del Politecnico di Milano definisce lo smart working ”una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. Ma è tutto oro quello che luccica? Ed è veramente “nuovo” come sembra?

Ebbene, bisogna ricordare che a partire dagli anni Sessanta è già esistito, in Italia, quello che oggi chiamiamo “smart working”, una modalità di “lavoro agile” che interessava un ben preciso tipo di lavoratori: le donne.

Le coordinate generali dell’occupazione femminile, in quegli anni, erano legate indissolubilmente a una serie di tradizioni, abitudini e convinzioni molto radicate nella società. Ad esempio, era prassi comune che le donne, quando si sposavano, fossero licenziate alla nascita del primo figlio (ma anche oggi, quante devono accettare un trattamento simile?). Nello stesso tempo, gran parte del lavoro agricolo continuava a essere svolto da loro, che dovevano quindi barcamenarsi tra la fatica nei campi e quella in casa (compreso l’allevamento dei figli, visto che non esistevano adeguate strutture per l’infanzia). La società italiana era ancora di stampo patriarcale, le donne erano tenute a casa dal legame con i figli e la loro attività lavorativa era considerata sempre “gratis data”, pur essendo pesante. La divisione dei ruoli era rigida: l’uomo si preoccupava del reddito, la moglie era una casalinga. Se poi tra le sue mansioni c’erano quelle, come detto, di contadina o lavoratrice precaria, non erano che inevitabili conseguenze della sua “naturale” condizione. Quindi, dovute.

Occorre considerare che nelle fabbriche, a partire dalla seconda metà degli anni ’50, la meccanizzazione era andata avanti a passi da gigante. Di conseguenza, soprattutto nel terziario e in particolari nei settori industriali quali ad esempio la meccanica di precisione e la costruzione di apparecchiature elettriche, gli operai qualificati potevano essere sostituiti – con grande risparmio – da donne. Erano perfette perché costituivano una manodopera flessibile, mobile, erano adatte a mansioni non qualificate e molto ripetitive, che tuttavia richiedevano abilità, precisione, pazienza. Man mano che passavano gli anni, quindi, soprattutto nelle aree urbane, le donne furono sempre più spesso impegnate in lavori a domicilio che andavano dalla sartoria all’assemblamento di ingranaggi elettrici, dalla costruzione di giocattoli alla creazione di monili. Erano attività precarie e intermittenti, difficili oggi da ricostruire dettagliatamente, ma che avevano un punto in comune: l’assenza di ogni garanzia e tutela.

Anche le donne regolarmente assunte non se la passavano meglio: nelle fabbriche spesso erano relegate nelle categorie e qualifiche più basse e private di ogni possibilità di avanzamento di carriera, con discriminazioni salariali (che nel mondo del lavoro femminile esistono ancora oggi!).

A partire dagli anni Sessanta quindi questo antenato dell’attuale “smart working”, il lavoro a domicilio, è stato comune tra le donne. Spesso il reddito del capofamiglia non era sufficiente, ma contemporaneamente la moglie doveva essere a casa a tempo pieno per seguire la famiglia. Molte grandi aziende d’altronde attuavano un deciso decentramento produttivo, per cui diverse fasi della lavorazione erano svolte tramite imprese minori, fino al lavoro a domicilio, l’ultimo anello di questa catena, una modalità lavorativa caratteristiche elevate di sfruttamento, ritmi di lavoro massacranti e spesso condizioni igienico-sanitarie precarie per tutta la famiglia (in caso di utilizzo di sostanze nocive nell’ambiente domestico).

D’altra parte, le stesse lavoratrici tendevano a considerare positivamente l’enorme vantaggio di potere restare a casa senza apparenti obblighi e imposizioni di orario, scambiando per libertà quella che era invece l’espressione massima dello sfruttamento e dell’emarginazione.

Nel romanzo “La tabacchiera di Otto Schmitt” vediamo la protagonista, Carmelina Spadafora, originaria della Calabria e trasferitasi nel Nord Italia nel paesino di Colombano, costretta dalle circostanze a trovare un lavoro a domicilio, per poter guadagnare qualcosa pur avendo una figlia in età scolare e nessuna specializzazione. Non sarà la prima, né l’ultima delle difficoltà che dovrà affrontare, dal giorno in cui, con un matrimonio combinato, ha lasciato la Calabria per un viaggio interminabile…

 

Irene Schiavetta vive a Savona con il marito e i figli e insegna pianoforte presso il Conservatorio di Cuneo, dove è vicedirettore. Ha scritto commedie brillanti, racconti, il romanzo Le tre signore (Coedit, premiato in concorsi internazionali); testi di letteratura (pubblicati da Atlas); cinque libri gialli con Fiorenza Giorgi, fra cui Il mistero di San Giacomo (Fratelli Frilli); il racconto per bambini L’Occhio di Bubuz (il Ciliegio). Ha pubblicato inoltre testi di didattica musicale tra cui Primo Piano, Il nuovo Centone (Carisch) e Mai troppo piano, Il Millione, Su e giù per le scale, Pianopiùforte (Dantone).

La tabacchiera di Otto Schmitt è il suo ultimo lavoro letterario recentemente pubblicato da Edizioni Il Ciliegio.