Adriano Favole su La
Lettura di domenica 21 maggio ha scritto: “… la responsabilità dell’uomo,
onde evitare la Fine, è quella di garantire un rapporto armonico tra gli esseri
viventi”. Io aggiungerei: “…e la Natura”. Nell’articolo Favole illustrava i
rischi dell’Antropocene, un nuovo tempo caratterizzato dalla crescente
fragilità della Terra. Ma a rendere fragile la Terra è l’uomo, che nel corso
degli ultimi tre secoli ha drasticamente cambiato l’ambiente in cui vive.
L’islandese di
Leopardi incontra la personificazione della Natura nel deserto africano, e le
dice apertamente di odiata perché ovunque egli sia andato, in qualsiasi luogo abbia
messo piede, Lei, la Natura, lo ha pungolato, rendendogli la vita poco agiata.
Tuttavia l’islandese odia la Natura, ma non si sogna neppure per un momento di
non portarle il rispetto che merita. La rispetta anche quando Lei gli fa sapere
che i tormenti o le gioie degli uomini le sono del tutto indifferenti. Che,
Lei, la Natura, non fa né il bene né il male di nessuno.
Quando
stamattina, Danilo Di Gangi mi ha spedito il suo articolo, pregandomi di
pubblicarlo, ho capito che certe sfide l’uomo le perde in
partenza: le perde nel momento stesso in cui dimentica l’armonia di cui ha
scritto Favole; le perde quando, con arroganza, si ostina a ripararsi dal vento
e dalla sabbia che seppelliscono l’islandese di Leopardi.
Danilo ha
scritto un articolo di denuncia e di amore per l’Everest: la montagna più alta
che è diventato un business commerciale, un business che molti pagano al prezzo della vita.
i.b.
Maggio.
Stagione
di ascensioni sulla montagna più alta della Terra, conosciuta dagli occidentali
come Everest. Ogni anno, in questo mese, si possono leggere più o meno gli
stessi titoli sui rotocalchi e sulle pagine web, una drammatica litania
ripetitiva. Ogni anno l’idiozia umana è più forte del valore della vita stessa.
Maggio
2017.
Ennesimo
dramma sull'Everest. Il dipartimento nepalese del Turismo conferma la morte di
quattro scalatori impegnati in tre diverse ascese. Inizialmente disperso e, poi,
recuperato senza vita, anche un quinto scalatore – indiano -, che si è sentito
male nella discesa dalla vetta. Al campo sud, a 8.000 metri, è stato trovato
privo di sensi lo sherpa che lo accompagnava. Al campo 4 avanzato, altri
quattro alpinisti sono stati trovati morti in tenda: due nepalesi e due
occidentali. Negli ultimi giorni di questo funereo mese, circa dodici scalatori,
in evidenti difficoltà nel tentativo di raggiungere la cima, sono stati tratti
in salvo scampando la morte. Tuttavia, ve ne sono ancora oltre un centinaio che
stanno risalendo il versante sud, cercando di concludere l'ascensione prima che
i forti venti previsti rendano impossibile l'ascesa. La storia si ripete.
Maggio
2014.
Diciassette
sherpa muoiono sotto una valanga di ghiaccio sull’Ice Fall - la prima temibile seraccata da superare nella salita
verso l’Everest - mentre stanno approntando le scale e le corde per i turisti d’alta
quota. È la più grave tragedia nella storia dell'alpinismo sull'Himalaya. Il
gioco si ferma perché gli sherpa si rifiutano di proseguire i lavori; rivendicano
migliori condizioni economiche, di sicurezza e di indennità per le loro
famiglie - nel caso dovessero perire - oltre alla non applicazione delle misure
punitive per coloro che si rifiutassero di fissare corde e scale durante la
stagione. Tuttavia, il governo nepalese cerca con ogni mezzo di disinnescare le
tensioni, poiché l’industria del trekking e delle scalate rappresenta una
miniera d’oro. Il business supera di gran lunga qualsiasi tragedia possa
capitare e qualsiasi perdita di vite umane. Tanto per capirci ed essere chiari,
il progetto di scalare l'Everest può costare fino a 100.000 dollari a ciascun
scalatore, mentre uno sherpa, per la sua attività di due-tre mesi l'anno,
guadagna fra 3.000 e 6.000 dollari.
Maggio2015.
Ancora
morti, tanti. Al campo base della montagna ventidue persone periscono per il
ghiacciaio franato dopo la terribile scossa di terremoto che ha colpito il
Nepal - magnitudo 7.6 -. Per rispetto delle migliaia di vittime avvenute in
tutto il paese, le spedizioni alpinistiche vengono bloccate.
Maggio
2016.
Altri
morti. Sei in una sola settimana. Per ictus, edemi cerebrali, sfinimento,
ipossia. Decine i feriti: per congelamenti, cecità da neve e malesseri da
altitudine. È un bollettino di guerra dell’alta quota. Ed è solo quello degli
ultimi quattro anni.
Come
mai nessuno corre ai ripari? Di chi è la colpa di tutto ciò? Tante sono le
responsabilità. In primis, delle autorità governative nepalesi. Il dipartimento
del Turismo ha rilasciato quest'anno un numero di permessi record per le
scalate di primavera: quasi 400. I permessi rendono bene, sono lucrosi,
sebbene, negli ultimi tempi, i prezzi si siano più che dimezzati. Oggi, un
permesso di ascesa costa “solo” 11.000 dollari. Ogni primavera, il governo
incassa dai 2 ai 2,5 milioni di euro e, nel caso di annullamento della stagione
- per calamità naturali, come già è avvenuto - dovrebbe restituirli alle
agenzie specializzate. Tuttavia, sebbene nessuno ci pensi mai - e appaia
abbastanza macabro -, è lucroso, e molto, anche il business del recupero dei
cadaveri con gli elicotteri - i familiari non vogliono che vengano calpestati
da centinaia di altri scalatori e, molte volte, ne richiedono la restituzione -,
impresa costosissima. Da anni si parla di porre un numero chiuso a tutela della
montagna e dell’ambiente circostante, invano. Troppo grande è il business. Le
metastasi, in questa parte della Terra, sono altresì facilmente alimentabili. E
così, negli anni Novanta, sono comparse le prime spedizioni commerciali: il
vero cancro dell’Everest. Promettono di accompagnare qualsiasi persona, capace
o incapace, sulla cima, in cambio di denaro. Forniscono servizi a richiesta,
certo, e continuano a esistere perché vi sono le richieste. Ma è ancora
moralmente accettabile dopo centinaia di morti? Le spedizioni commerciali organizzate
in Europa, Nuova Zelanda e Nepal non sono buona cosa. Non lo sono perché
sviliscono la montagna, dissacrano i luoghi, portano alla degenerazione
dell’alpinismo, all’imbarbarimento estetico, all’annientamento dei valori
culturali delle popolazioni autoctone. Non lo sono perché riducono la dignità
del monte in una banale attrazione da parco giochi, dove conta solo più la
dimensione del primato da raggiungere a ogni costo, l’evento commerciale, lo
show. La montagna non è una gara sportiva dove il primo posto esalta la
performance, non è da salire a tutti i costi, piuttosto un percorso da
affrontare con umiltà, con i propri mezzi e capacità, in totale sintonia con la
natura, per ricordare, sempre e comunque, la nostra infinitesimale presenza nei
confronti dell’Universo. Qualcuno ancora se lo ricorda? Anche tra i cosiddetti
“veri alpinisti” - non “gli “ignoranti d’alta quota” -, i duri e puri, i
socialmente corretti che, però, vendono le loro “imprese” al grande business
commerciale. Qualcuno pone mai un pensiero all’immane disastro ecologico che
queste spedizioni causano? Avere 400 alpinisti sulla montagna significa avere
altrettante persone, se non di più, tra cuochi, ragazzotti di cucina, portatori
d’alta quota e sherpa. Quasi mille persone! Una tonnellata di feci al giorno
prodotte al solo campo base, portate a spalla e seppellite sulla morena secca
più a valle, e, nelle giornate di bel tempo, almeno un’altra mezza tonnellata
tra campo due, tre e quattro. Oltre ad altrettante quantità di urina e ancora
tonnellate di rifiuti secchi prodotte in ogni stagione: bombole, tende,
materassini, sacchi a pelo e corde abbandonati in quota.
Vogliamo
parlare di sostenibilità ambientale in uno dei posti più belli e fragili del pianeta?
Di questo bisognerebbe occuparsi e non del business o dello smisurato Ego del
99 per cento degli alpinisti o pseudo tali o perfetti “ignoranti della montagna”
che giungono qui, asiatici o occidentali che siano. Le metastasi di questo
cancro si moltiplicano velocemente. Laddove non bastano le spedizioni
commerciali a banalizzare, svilire, annientare e distruggere, ci pensa la nuova
frontiera dell’alpinismo, dove la parola d’ordine è l’abbattimento del limite:
sempre più veloce, sempre più ripido, sempre più lungo, sempre più difficile.
Salite e discese in giornata, concatenamenti di vette sopra gli 8.000 metri,
salite, discese, riposi ridotti e poi ripartenze e, magari, fra qualche tempo,
salite senza scarpe d'inverno o in verticale sulle mani. Questa folle corsa all’idolatria
personale e alla smisurata considerazione del proprio Ego non fa che condurre
alla terribile e deleteria illusione che non vi siano più limiti. Tutto è
possibile, anche l’impossibile. E così passiamo dai primi mercenari della montagna,
che in cambio di 40.000 dollari portavano tutti sulla cima dell’Everest, ai “cercatori
di primati” odierni, che inseguono qualsiasi obiettivo - più o meno folle - per
stabilire un nuovo record. E poi, si tratterà davvero di un nuovo record? I
fedelissimi dicono di sì, gli scettici dicono di no. Qualcuno contesta che il
punto di partenza non coincida con il punto di arrivo. Il record non vale. Ancora,
fanno notare che altri scalatori e scalatrici pare siano saliti in vetta
all'Everest due volte in pochi giorni. Allora, il temerario di turno, per
mettere tutti a tacere, dice: «mi riposo qualche giorno e poi ritento». Nel
gaudio e nell’entusiasmo generale dei simpatizzanti. Perché nessuno riflette mai sui messaggi devastanti che queste
“imprese” portano con sé. Siamo tornati al mito del superuomo. L’essere umano
può tutto: è questo il messaggio che viene trasmesso alle nuove generazioni. Non
esiste limite al limite. D'altronde, quasi un secolo fa, George Mallory - un
alpinista inglese morto sull’Everest nel 1924, che secondo alcuni raggiunse la
vetta vent’anni prima di Tenzing Norgay e Sir Edmund Hillary - disse che la
vetta dell’Everest è un simbolo “del desiderio dell’umanità di conquistare
l’Universo. La storia si ripete, sempre in negativo. E tutti ne siamo
corresponsabili. Anche solo mettendo migliaia di “like” sulle pagine che
raccontano simili “imprese”.
Tutto
è possibile: anche scalare la montagna senza permesso. Impresa tentata qualche
settimana fa da un sudafricano, multato, arrestato e fuggito rocambolescamente,
nascondendosi nelle grotte. Condotto in prigione, è ora libero su cauzione,
senza però aver riavuto il passaporto. L’aspetto più paradossale è però
rappresentato da ciò che ha mosso l’uomo ad attuare questo piano. Per sua
stessa ammissione, voleva salire l’Everest dal versante nepalese e scendere da
quello tibetano - senza nemmeno pensare alle conseguenze con le autorità cinesi
- e, soprattutto, con una totale assenza di esperienza alpinistica: «Ho imparato
a scalare in vista di questa impresa leggendo libri e guardando video su Youtube»
avrebbe dichiarato. L’intenzione era di documentare il tutto per produrre un
libro e un film. Tutto è possibile: anche perdere completamente la connessione
con la realtà. Gli stessi effetti che l’alta quota provoca sulla mente nella
“zona della morte” sono provocati - a 0 metri slm - dal desiderio di compiere
qualcosa di unico, dal desiderio di realizzare un primato, dal voler a ogni
costo apparire come realizzatori di un’impresa. In realtà, la vera “impresa”
sarebbe ritrovare il senso delle cose, il senso della montagna, il senso
dell’umiltà dentro noi stessi. La vera impresa sarebbe riconoscere la smisurata
superiorità della Natura di fronte all’essere umano. La vera “impresa” sarebbe ristabilire un
rapporto corretto con ciò che ci circonda. La vera “impresa” sarebbe tornare a
una convivenza sostenibile con la Madre Terra. La vera “impresa” sarebbe
riportare l’Everest alla sua essenza primordiale, dopo averlo trasformato in un
set delle meraviglie e in una avvilente passerella telematica. La vera “impresa”
sarebbe riorientare l’opinione pubblica vero “un senso della montagna” capace
di riconoscerne il valore altissimo e profondo. Esplorare luoghi come questi dovrebbe
portare a comprendere la forza di ciò che è superiore a noi, la potenza degli
elementi, il rapporto tra terra e cielo e tra essere umano e spirito. Dovrebbe
far nascere un rispetto profondissimo per le imponenti cime, per i culti degli
abitanti del posto, per un “modus vivendi” in profonda simbiosi con una natura
al contempo creatrice e distruttrice.
Il
Chomulungma, la montagna più alta della Terra, è sempre stata considerata e
venerata come una dea dai tibetani, la dea Madre della Terra. Gli sherpa
nepalesi la reputavano tale e la chiamavano Sagarmatha, la dea del Cielo. Un
tempo queste zone erano intrise di profonda sacralità e gli abitanti del luogo
ossequiavano le alte cime come dimore di dei e divinità. Oggigiorno, la loro venerabilità
è stata assolutamente vituperata, in nome del business e del successo. Fino a
quando non ritroveremo, con umiltà, quale sia il nostro ruolo all’interno dell’Universo
non potremo evolvere, continueremo a ragionare e comportarci solo in funzione
del nostro Ego. Una cancerosa abitudine che svuota di valore la religiosità di
territori che hanno rappresentato per secoli la dimora di un principio
superiore e snatura credenze e tradizioni di un popolo.
«Salire
sull’Everest era una ricerca del tutto estranea a noi sherpa; era sconsiderata,
insensata. Eppure, con il passare del tempo, avrebbe finito per assorbirci e
cambiarci irrevocabilmente» ha scritto
il nipote di Tenzing Norgay, il primo sherpa a salire sull’Everest. E così è
stato. E tutti, ora più che mai, dobbiamo difendere questi luoghi sacri e non
ridurli a un grande luna park dove ognuno vuole essere protagonista. Le tante
vite spezzate sono reali. E nessuno dica che sono un “tributo alla montagna”.
Lo sono, piuttosto, all’idiozia umana.
Danilo Di Gangi
Nota
del curatore del blog e della Casa Editrice: Gli argomenti affrontati in questo
articolo sono di esclusiva responsabilità dell’autore del testo pubblicato
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Danilo Di Gangi |
Danilo Di Gangi ha pubblicato con Edizioni il Ciliegio il libro Nepal fra terra
e cielo. Nato a Cuneo, dove risiede, Di Gangi è uno scrittore, un
viaggiatore e un insegnante: ha pubblicato per le edizioni L’Arciere: Cieli
d’infinito. Mongolia, terra senza tempo (2003); Il
Gioiello di neve. Kailash, l’essenza del Tibet (2004); Fra barbari
e dei. La vera politica cinese in Tibet (2008). Per le edizioni
Campanotto: Siberia (in)contaminata (2010). Per Edizioni Il
Ciliegio ha pubblicato anche: Viaggio al limitare del
tempo. Un racconto esoterico (2010); Lungo come l’Indo (2012).
Per le edizioni Pietre Vive: Forse spazi (2013), raccolta di poesie
e immagini.