26/05/17

A PROPOSITO DI EVEREST: SUL SENSO DELLA MONTAGNA

Adriano Favole su La Lettura di domenica 21 maggio ha scritto: “… la responsabilità dell’uomo, onde evitare la Fine, è quella di garantire un rapporto armonico tra gli esseri viventi”. Io aggiungerei: “…e la Natura”. Nell’articolo Favole illustrava i rischi dell’Antropocene, un nuovo tempo caratterizzato dalla crescente fragilità della Terra. Ma a rendere fragile la Terra è l’uomo, che nel corso degli ultimi tre secoli ha drasticamente cambiato l’ambiente in cui vive.
L’islandese di Leopardi incontra la personificazione della Natura nel deserto africano, e le dice apertamente di odiata perché ovunque egli sia andato, in qualsiasi luogo abbia messo piede, Lei, la Natura, lo ha pungolato, rendendogli la vita poco agiata. Tuttavia l’islandese odia la Natura, ma non si sogna neppure per un momento di non portarle il rispetto che merita. La rispetta anche quando Lei gli fa sapere che i tormenti o le gioie degli uomini le sono del tutto indifferenti. Che, Lei, la Natura, non fa né il bene né il male di nessuno.
Quando stamattina, Danilo Di Gangi mi ha spedito il suo articolo, pregandomi di pubblicarlo, ho capito che certe sfide l’uomo le perde in partenza: le perde nel momento stesso in cui dimentica l’armonia di cui ha scritto Favole; le perde quando, con arroganza, si ostina a ripararsi dal vento e dalla sabbia che seppelliscono l’islandese di Leopardi.
Danilo ha scritto un articolo di denuncia e di amore per l’Everest: la montagna più alta che è diventato un business commerciale, un business che molti pagano al prezzo della vita.

i.b.     


Maggio.
Stagione di ascensioni sulla montagna più alta della Terra, conosciuta dagli occidentali come Everest. Ogni anno, in questo mese, si possono leggere più o meno gli stessi titoli sui rotocalchi e sulle pagine web, una drammatica litania ripetitiva. Ogni anno l’idiozia umana è più forte del valore della vita stessa.

Maggio 2017.
Ennesimo dramma sull'Everest. Il dipartimento nepalese del Turismo conferma la morte di quattro scalatori impegnati in tre diverse ascese. Inizialmente disperso e, poi, recuperato senza vita, anche un quinto scalatore – indiano -, che si è sentito male nella discesa dalla vetta. Al campo sud, a 8.000 metri, è stato trovato privo di sensi lo sherpa che lo accompagnava. Al campo 4 avanzato, altri quattro alpinisti sono stati trovati morti in tenda: due nepalesi e due occidentali. Negli ultimi giorni di questo funereo mese, circa dodici scalatori, in evidenti difficoltà nel tentativo di raggiungere la cima, sono stati tratti in salvo scampando la morte. Tuttavia, ve ne sono ancora oltre un centinaio che stanno risalendo il versante sud, cercando di concludere l'ascensione prima che i forti venti previsti rendano impossibile l'ascesa. La storia si ripete.

Maggio 2014.
Diciassette sherpa muoiono sotto una valanga di ghiaccio sull’Ice Fall - la prima temibile seraccata da superare nella salita verso l’Everest - mentre stanno approntando le scale e le corde per i turisti d’alta quota. È la più grave tragedia nella storia dell'alpinismo sull'Himalaya. Il gioco si ferma perché gli sherpa si rifiutano di proseguire i lavori; rivendicano migliori condizioni economiche, di sicurezza e di indennità per le loro famiglie - nel caso dovessero perire - oltre alla non applicazione delle misure punitive per coloro che si rifiutassero di fissare corde e scale durante la stagione. Tuttavia, il governo nepalese cerca con ogni mezzo di disinnescare le tensioni, poiché l’industria del trekking e delle scalate rappresenta una miniera d’oro. Il business supera di gran lunga qualsiasi tragedia possa capitare e qualsiasi perdita di vite umane. Tanto per capirci ed essere chiari, il progetto di scalare l'Everest può costare fino a 100.000 dollari a ciascun scalatore, mentre uno sherpa, per la sua attività di due-tre mesi l'anno, guadagna fra 3.000 e 6.000 dollari.

Maggio2015.
Ancora morti, tanti. Al campo base della montagna ventidue persone periscono per il ghiacciaio franato dopo la terribile scossa di terremoto che ha colpito il Nepal - magnitudo 7.6 -. Per rispetto delle migliaia di vittime avvenute in tutto il paese, le spedizioni alpinistiche vengono bloccate.

Maggio 2016.
Altri morti. Sei in una sola settimana. Per ictus, edemi cerebrali, sfinimento, ipossia. Decine i feriti: per congelamenti, cecità da neve e malesseri da altitudine. È un bollettino di guerra dell’alta quota. Ed è solo quello degli ultimi quattro anni.

Come mai nessuno corre ai ripari? Di chi è la colpa di tutto ciò? Tante sono le responsabilità. In primis, delle autorità governative nepalesi. Il dipartimento del Turismo ha rilasciato quest'anno un numero di permessi record per le scalate di primavera: quasi 400. I permessi rendono bene, sono lucrosi, sebbene, negli ultimi tempi, i prezzi si siano più che dimezzati. Oggi, un permesso di ascesa costa “solo” 11.000 dollari. Ogni primavera, il governo incassa dai 2 ai 2,5 milioni di euro e, nel caso di annullamento della stagione - per calamità naturali, come già è avvenuto - dovrebbe restituirli alle agenzie specializzate. Tuttavia, sebbene nessuno ci pensi mai - e appaia abbastanza macabro -, è lucroso, e molto, anche il business del recupero dei cadaveri con gli elicotteri - i familiari non vogliono che vengano calpestati da centinaia di altri scalatori e, molte volte, ne richiedono la restituzione -, impresa costosissima. Da anni si parla di porre un numero chiuso a tutela della montagna e dell’ambiente circostante, invano. Troppo grande è il business. Le metastasi, in questa parte della Terra, sono altresì facilmente alimentabili. E così, negli anni Novanta, sono comparse le prime spedizioni commerciali: il vero cancro dell’Everest. Promettono di accompagnare qualsiasi persona, capace o incapace, sulla cima, in cambio di denaro. Forniscono servizi a richiesta, certo, e continuano a esistere perché vi sono le richieste. Ma è ancora moralmente accettabile dopo centinaia di morti? Le spedizioni commerciali organizzate in Europa, Nuova Zelanda e Nepal non sono buona cosa. Non lo sono perché sviliscono la montagna, dissacrano i luoghi, portano alla degenerazione dell’alpinismo, all’imbarbarimento estetico, all’annientamento dei valori culturali delle popolazioni autoctone. Non lo sono perché riducono la dignità del monte in una banale attrazione da parco giochi, dove conta solo più la dimensione del primato da raggiungere a ogni costo, l’evento commerciale, lo show. La montagna non è una gara sportiva dove il primo posto esalta la performance, non è da salire a tutti i costi, piuttosto un percorso da affrontare con umiltà, con i propri mezzi e capacità, in totale sintonia con la natura, per ricordare, sempre e comunque, la nostra infinitesimale presenza nei confronti dell’Universo. Qualcuno ancora se lo ricorda? Anche tra i cosiddetti “veri alpinisti” - non “gli “ignoranti d’alta quota” -, i duri e puri, i socialmente corretti che, però, vendono le loro “imprese” al grande business commerciale. Qualcuno pone mai un pensiero all’immane disastro ecologico che queste spedizioni causano? Avere 400 alpinisti sulla montagna significa avere altrettante persone, se non di più, tra cuochi, ragazzotti di cucina, portatori d’alta quota e sherpa. Quasi mille persone! Una tonnellata di feci al giorno prodotte al solo campo base, portate a spalla e seppellite sulla morena secca più a valle, e, nelle giornate di bel tempo, almeno un’altra mezza tonnellata tra campo due, tre e quattro. Oltre ad altrettante quantità di urina e ancora tonnellate di rifiuti secchi prodotte in ogni stagione: bombole, tende, materassini, sacchi a pelo e corde abbandonati in quota.

Vogliamo parlare di sostenibilità ambientale in uno dei posti più belli e fragili del pianeta? Di questo bisognerebbe occuparsi e non del business o dello smisurato Ego del 99 per cento degli alpinisti o pseudo tali o perfetti “ignoranti della montagna” che giungono qui, asiatici o occidentali che siano. Le metastasi di questo cancro si moltiplicano velocemente. Laddove non bastano le spedizioni commerciali a banalizzare, svilire, annientare e distruggere, ci pensa la nuova frontiera dell’alpinismo, dove la parola d’ordine è l’abbattimento del limite: sempre più veloce, sempre più ripido, sempre più lungo, sempre più difficile. Salite e discese in giornata, concatenamenti di vette sopra gli 8.000 metri, salite, discese, riposi ridotti e poi ripartenze e, magari, fra qualche tempo, salite senza scarpe d'inverno o in verticale sulle mani. Questa folle corsa all’idolatria personale e alla smisurata considerazione del proprio Ego non fa che condurre alla terribile e deleteria illusione che non vi siano più limiti. Tutto è possibile, anche l’impossibile. E così passiamo dai primi mercenari della montagna, che in cambio di 40.000 dollari portavano tutti sulla cima dell’Everest, ai “cercatori di primati” odierni, che inseguono qualsiasi obiettivo - più o meno folle - per stabilire un nuovo record. E poi, si tratterà davvero di un nuovo record? I fedelissimi dicono di sì, gli scettici dicono di no. Qualcuno contesta che il punto di partenza non coincida con il punto di arrivo. Il record non vale. Ancora, fanno notare che altri scalatori e scalatrici pare siano saliti in vetta all'Everest due volte in pochi giorni. Allora, il temerario di turno, per mettere tutti a tacere, dice: «mi riposo qualche giorno e poi ritento». Nel gaudio e nell’entusiasmo generale dei simpatizzanti. Perché nessuno riflette mai sui messaggi devastanti che queste “imprese” portano con sé. Siamo tornati al mito del superuomo. L’essere umano può tutto: è questo il messaggio che viene trasmesso alle nuove generazioni. Non esiste limite al limite. D'altronde, quasi un secolo fa, George Mallory - un alpinista inglese morto sull’Everest nel 1924, che secondo alcuni raggiunse la vetta vent’anni prima di Tenzing Norgay e Sir Edmund Hillary - disse che la vetta dell’Everest è un simbolo “del desiderio dell’umanità di conquistare l’Universo. La storia si ripete, sempre in negativo. E tutti ne siamo corresponsabili. Anche solo mettendo migliaia di “like” sulle pagine che raccontano simili “imprese”.

Tutto è possibile: anche scalare la montagna senza permesso. Impresa tentata qualche settimana fa da un sudafricano, multato, arrestato e fuggito rocambolescamente, nascondendosi nelle grotte. Condotto in prigione, è ora libero su cauzione, senza però aver riavuto il passaporto. L’aspetto più paradossale è però rappresentato da ciò che ha mosso l’uomo ad attuare questo piano. Per sua stessa ammissione, voleva salire l’Everest dal versante nepalese e scendere da quello tibetano - senza nemmeno pensare alle conseguenze con le autorità cinesi - e, soprattutto, con una totale assenza di esperienza alpinistica: «Ho imparato a scalare in vista di questa impresa leggendo libri e guardando video su Youtube» avrebbe dichiarato. L’intenzione era di documentare il tutto per produrre un libro e un film. Tutto è possibile: anche perdere completamente la connessione con la realtà. Gli stessi effetti che l’alta quota provoca sulla mente nella “zona della morte” sono provocati - a 0 metri slm - dal desiderio di compiere qualcosa di unico, dal desiderio di realizzare un primato, dal voler a ogni costo apparire come realizzatori di un’impresa. In realtà, la vera “impresa” sarebbe ritrovare il senso delle cose, il senso della montagna, il senso dell’umiltà dentro noi stessi. La vera impresa sarebbe riconoscere la smisurata superiorità della Natura di fronte all’essere umano.  La vera “impresa” sarebbe ristabilire un rapporto corretto con ciò che ci circonda. La vera “impresa” sarebbe tornare a una convivenza sostenibile con la Madre Terra. La vera “impresa” sarebbe riportare l’Everest alla sua essenza primordiale, dopo averlo trasformato in un set delle meraviglie e in una avvilente passerella telematica. La vera “impresa” sarebbe riorientare l’opinione pubblica vero “un senso della montagna” capace di riconoscerne il valore altissimo e profondo. Esplorare luoghi come questi dovrebbe portare a comprendere la forza di ciò che è superiore a noi, la potenza degli elementi, il rapporto tra terra e cielo e tra essere umano e spirito. Dovrebbe far nascere un rispetto profondissimo per le imponenti cime, per i culti degli abitanti del posto, per un “modus vivendi” in profonda simbiosi con una natura al contempo creatrice e distruttrice.

Il Chomulungma, la montagna più alta della Terra, è sempre stata considerata e venerata come una dea dai tibetani, la dea Madre della Terra. Gli sherpa nepalesi la reputavano tale e la chiamavano Sagarmatha, la dea del Cielo. Un tempo queste zone erano intrise di profonda sacralità e gli abitanti del luogo ossequiavano le alte cime come dimore di dei e divinità. Oggigiorno, la loro venerabilità è stata assolutamente vituperata, in nome del business e del successo. Fino a quando non ritroveremo, con umiltà, quale sia il nostro ruolo all’interno dell’Universo non potremo evolvere, continueremo a ragionare e comportarci solo in funzione del nostro Ego. Una cancerosa abitudine che svuota di valore la religiosità di territori che hanno rappresentato per secoli la dimora di un principio superiore e snatura credenze e tradizioni di un popolo.

«Salire sull’Everest era una ricerca del tutto estranea a noi sherpa; era sconsiderata, insensata. Eppure, con il passare del tempo, avrebbe finito per assorbirci e cambiarci irrevocabilmente» ha  scritto il nipote di Tenzing Norgay, il primo sherpa a salire sull’Everest. E così è stato. E tutti, ora più che mai, dobbiamo difendere questi luoghi sacri e non ridurli a un grande luna park dove ognuno vuole essere protagonista. Le tante vite spezzate sono reali. E nessuno dica che sono un “tributo alla montagna”. Lo sono, piuttosto, all’idiozia umana.


Danilo Di Gangi

Nota del curatore del blog e della Casa Editrice: Gli argomenti affrontati in questo articolo sono di esclusiva responsabilità dell’autore del testo pubblicato


Danilo Di Gangi
Danilo Di Gangi ha pubblicato con Edizioni il Ciliegio il libro Nepal fra terra e cielo. Nato a Cuneo,  dove risiede, Di Gangi è uno scrittore, un viaggiatore e un insegnante: ha pubblicato per le edizioni L’Arciere: Cieli d’infinito. Mongolia, terra senza tempo (2003); Il Gioiello di neve. Kailash, l’essenza del Tibet (2004); Fra barbari e dei. La vera politica cinese in Tibet (2008). Per le edizioni Campanotto: Siberia (in)contaminata (2010). Per Edizioni Il Ciliegio ha pubblicato anche: Viaggio al limitare del tempo. Un racconto esoterico (2010); Lungo come l’Indo (2012). Per le edizioni Pietre Vive: Forse spazi (2013), raccolta di poesie e immagini.






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