Chi è
e che cosa fa un assistente sociale? Che idea ci siamo fatti di questa figura? L’opinione
più comune è quella di un impiegato di un ente pubblico al servizio dei
cittadini in difficoltà. Una brava persona, dedita agli altri. Ma che cosa
succede quando questa persona non riesce a risolvere un problema? E quali sono
le sue ansie e le sue preoccupazioni quando è costretta a prendere delle decisioni
difficili?Paolo Pajer, in questo articolo già apparso su una rivista nel 2011,
ci propone un punto di vista inedito: appunto quello dell’assistente sociale.
Un
focus illuminante di un’esperienza professionale oggi più che mai di grande
attualità.
i.b.
Qual è il peccato originale dell’assistente sociale? Che ha
fatto di male questa professione oltraggiata, malpagata, vituperata,
sottovalutata, disprezzata? Comunista se vista da destra, fascista se vista da
sinistra. Una professione sulla quale tutti si accaniscono perché nessuno si
preoccupa di tutelarla, tanto meno gli interessati.
Aver raggiunto la dignità
accademica con il titolo di dottore
non ha fatto concludere il patire di questa professione, da sempre compressa
fra il mancato senso compiuto della propria nascita e l’attribuzione
stratificata di responsabilità, mai rapportate nemmeno al livello contrattuale
e di retribuzione. Ciò che cerca da sempre l’assistente sociale è
l’autorevolezza e soprattutto il suo riconoscimento esterno, la sua
legittimazione. Una specie di credito culturale e sociale, in termini di
status, che permetta all’uomo o alla donna assistente sociale di non dover fare
grandi giri di parole per spiegare al proprio figlio che mestiere faccia la madre
o il padre. Si potrebbe dire: “Faccio il dottore”, ma presupporrebbe
pregiudizialmente l’esercizio di una disciplina medica (un po’ come dire che
essere americani significa essere statunitensi), mentre dire: “Faccio
l’assistente sociale” comporta invece l’imbarazzo di non avere un riferimento
concettuale chiaro e un insieme di attività caratterizzanti condivise.
L’assistente sociale si scontra
troppo spesso con i pregiudizi che vari media hanno contribuito a diffondere
riguardo la sua professione, che nel più frequente dei casi ruba i bambini. In
un contesto socio-culturale affamato di capri espiatori non è pensabile che
l’immagine dell’assistente sociale possa essere facilmente redenta, anche
perché non interessa ad alcuno redimerla ed è funzionale al sistema.
L’assistente sociale è una figura fragile e questo lo sanno bene i media, i
politici e anche i cittadini/utenti. È una figura utile per scaricare le
tensioni sociali e un comodo ammortizzatore delle inadempienze altrui. È un
professionista che non è mai riuscito a collocarsi con sicurezza nella
classificazione sociale italiana.
L’assistente sociale rischia di risultare,
a differenza di altre professioni, un eccellente parafulmine della campagna di
demonizzazione e destrutturazione della pubblica amministrazione e dei pubblici
servizi. I cosiddetti fannulloni,
animali astuti che nella fantasia comune si annidano come tumori in ogni
settore del lavoro pubblico, sono ben identificabili con l’assenza della figura
che dovrebbe esserci quando non c’è. Chi meglio dell’assistente sociale
rappresenta questa presenza-assenza? Gli organici spolpati dei servizi sociali
hanno tali carenze che gli effetti del turn-over, del burn-out (vera e propria
malattia professionale) e del carico di lavoro degli operatori, poco
visualizzabile e misurabile, vengono tacitamente intesi come la prova della
metafisicità dell’assistente sociale. Il peso qualitativo ed emotivo di un
lavoro basato sulla relazione di aiuto (con anziani, bambini, adulti, disabili,
ecc.) non si riesce ad evidenziare facilmente.
E non riuscire ad esibire virilmente le proprie prestazioni lavorative rende
amministrativamente invisibili e socialmente colpevoli.
L’assistente sociale deve perciò
pagare dazio alla propria natura che, nell’esigenza di dicotimizzare la realtà,
non si contraddistingue per essere carne né pesce, né altro.
Non è una figura sanitaria, ma
può a pieno diritto parlare di benessere e salute, di autonomia e di non
autosufficienza, di patologico e funzionale; non è una figura amministrativa,
ma deve produrre continuamente atti e muoversi secondo principi e iter formali
ben precisi. È un tecnico che non è un giurista, ma deve districarsi e
conoscere leggi, regolamenti, linee guida, decreti e delibere; non può dirsi
nemmeno uno psicologo, ma deve comprendere i meccanismi emotivi, mentali e di
funzionamento di sé, del singolo, della coppia, della famiglia o del gruppo.
L’assistente sociale non è un sociologo, ma deve conoscere fenomeni complessi
come la devianza, l’appartenenza, la lettura del disagio in termini aggregati
per poterne programmare politiche e progetti di intervento. Non è un economista
ma non può ignorare le dinamiche del mercato del lavoro, del sistema
previdenziale e pensionistico. Non è un informatico, ma deve sviluppare
costantemente strumenti gestionali complessi per ottimizzare, gestire e dare
senso al volume di lavoro su cui opera.
L’assistente sociale, nella sua
straordinaria ed assoluta peculiarità, costruisce la propria identità
professionale con un po’ di tutto questo. In realtà viene considerato solo un
intero ri-costruito con dei frammenti, ma poi tutti salgono sulle sue spalle
per vedere più lontano: per gestire dinamiche complesse, guarda un po’, serve
sempre un assistente sociale.
Siamo sintesi della complessità: nei migliori dei casi stelle danzanti
nate dal caos. Nel peggiore: una manciata di ingredienti che tentiamo di
trasformare in una polpetta commestibile.
Cosa significa gestire (to manage, in inglese)? Credo che
potremmo essere d’accordo nell’affermare che gestire significhi sovrintendere
intenzionalmente ad un’attività. Detto questo possiamo affermare che le
capacità gestionali dell’assistente sociale sono fra le più raffinate ed
evolute che ci siano nel panorama delle professioni, e la motivazione è proprio
la frammentazione delle attività e del proprio IO professionale e costitutivo,
che costringe la logica e la sensibilità dell’assistente sociale ad adeguarsi
costantemente alle pressioni e alle richieste che arrivano dall’esterno e ad
adattare le proprie risorse e competenze a tali necessità. Proprio il contrario
della specializzazione, che viene invece in genere sublimata per eccellenza.
L’assistente sociale, però,
vorrebbe veder riconosciuta la sua eccellenza e la rincorre goffamente, tentando
a volte la scalata alla specializzazione come strada per giungervi. In realtà
l’assistente sociale rincorre il bisogno che gli è stato infuso in quanto
“altro generalizzato”. Non basa il proprio concetto di sé su di un’eccellenza
che gli è già propria, ma lo rincorre in un riconoscimento esterno che non
avverrà mai. Cade paradossalmente vittima del tentacolo di uno dei rischi
professionali di invischiamento che deve gestire (non cerca di generare una
soluzione, ma ne attende gli esiti dall’esterno).
L’autonomia professionale, che
spesso diventa solitudine professionale, unitamente alle difficoltà
dell’assistente sociale di trovare un fertile confronto e supervisione
professionale, corre un rischio: quello di diventare autoreferenzialità. La
preparazione di base dell’assistente sociale, nella sua peculiare veste di
interprete del disagio e collettore di risorse, è sufficiente allo scopo ma
necessita di una costante alimentazione e “taratura” attraverso l’interazione
qualificata, la supervisione professionale e la formazione permanente.
La richiesta quotidiana, delicata
e difficile da gestire, che ancora una volta l’assistente sociale deve
sostenere è quella di mantenere l’equilibrio fra autonomia di giudizio ed
apertura al confronto. Per dirla in termini assoluti: fra oggettività e
soggettività. L’approccio mentale dell’assistente sociale al lavoro è di tipo
progettuale, pertanto circolare e sostanzialmente mai certo. Uno dei rischi
intellettuali più grandi è dunque la mancanza di punti di riferimento precisi e
soprattutto stabili, che concedono enormi vantaggi nella guerra di posizione
che l’assistente sociale perde costantemente in relazione ad altre professioni
più “scientifiche”.
Quali basi scientifiche possiamo
allora rivendicare in una professione che, per molti versi, è interpretativa,
pertanto vulnerabile e piena di variabili? Le discipline umanistiche hanno
sempre avuto un po’ di invidia per le cugine scientifiche, con i loro eleganti
modelli sperimentali. Non si riflette sufficientemente però che anche il
medico, figura semi-divina in termini di bontà (chi cura deve per definizione
volere-bene), per affrontare una banale influenza spesso prescrive farmaci di
cui ignora la reale efficacia o i rischi collaterali. La scientificità spesso è
una credenziale erroneamente pre-attribuita. Tutto quello che può accadere
nella malattia (peggioramenti, cronicità, nuovi sintomi) mediamente non lo si
attribuisce ad un limite del medico-scienziato-santo: sarebbe peccato.
Quello che invece si chiede
all’assistente sociale è concettualmente rovesciato: bisogna affrontare il
disagio sviluppando e attivando progetti e interventi che dovranno e potranno avere
solo esito favorevole, altrimenti si confermerà la sua incompetenza. Chi è
buono per definizione può anche sbagliare, ma chi è assistente sociale parte
con un peccato originale più pesante e deve sempre rincorrere la propria redenzione.
L’assistente sociale è supportato
in questo quadro tragico da una mancanza di senso di appartenenza della propria
comunità professionale. La cosa non accade quasi mai nelle altre professioni
“nobili”, dove i panni sporchi si lavano tendenzialmente in casa, ma
esternamente vige quanto meno il principio del “cane che non morde il cane”.
Provate a criticare l’operato di un assistente sociale con un altro assistente
sociale e vedrete se troverete appoggio o difesa del collega. Ma la vera
caratteristica che fa dell’assistente sociale un animale a serio rischio di
estinzione è il suo adattamento al cannibalismo. Mettere un assistente sociale
a capo di qualcosa significa proporgli due prospettive: essere eliminato prima
o poi dall’organizzazione in quanto in contrapposizione con il pensiero
dominante oppure convertirsi al feudalesimo. Il desiderio-necessità di
accondiscendere al signorotto-superiore, che in genere è incompetente in
materia, lo rende impermeabile a tutto e un efficiente braccio operativo, anche
e soprattutto in termini professionalmente autolesionistici. Il superiore gerarchico
è in genere un medico, un sociologo o qualsiasi altra cosa, ma molto raramente
un altro assistente sociale. Perché? Ma è ovvio: non serve conoscere la
peculiarità del servizio sociale e delle sue regole per poterlo dirigere. Vige
sempre il sacro dogma che il bene lo sappiamo fare tutti (eredità della socializzazione
secondaria?).
Siamo una professione orfana, nel
senso che siamo sempre alla ricerca del padre. Il padre sarebbe colui che
approva, colui che dà luce a noi poveri satelliti spenti costretti a gravitare
attorno all’astro di turno. Forse cerchiamo la metà che manca al nostro senso
di identità, quel lato oscuro che è la somma di tante parzialità. Perché mai
non è il contrario? Perché gli altri non si sentono attratti dal bisogno della
nostra approvazione? Cosa manca all’assistente sociale per generare
credibilità? È forse legato a questa dinamica il curioso fenomeno che ogni
esigenza degli altri (specialmente degli utenti) sia più importante di quelli
dell’assistente sociale (vincoli organizzativi, amministrativi, professionali,
ecc.)? Perché si deve arrivare a rischiare professionalmente (e personalmente)
per diminuire preventivamente il disagio altrui? Accettiamo passivamente
condizioni lavorative estreme, facciamo colloqui da soli in ambienti inospitali,
con persone potenzialmente stressate e aggressive, anche fuori orario di
servizio. Parliamo con chiunque si presenti, anche fuori orario di ricevimento.
E chi non si prostra inizia a percepire sulla nuca il peso della colpa. Tutto
questo per il “bene” dell’utente. Ma è davvero un “bene”?
È una dinamica diffusa, inoltre,
quella dell’amministratore pubblico che per vari motivi promette case, soldi,
lavoro e poi scarica sull’assistente sociale (spesso ignaro) l’onere del
mantenimento della promessa. E se ciò non si realizzasse si confermerebbe
l’incapacità di cui sopra.
Perché non viene rescisso il
cordone ombelicale che l’assistente sociale genera nei confronti dell’altro?
Cerchiamo di evocare il padre assente con questo surrogato di iperprotettività?
Forse solo quando riusciremo ad
avere maggiore consapevolezza del nostro valore a prescindere da tutto e da
tutti potremo emanciparci anche come professione ed ottenere il riconoscimento
dovuto. Ma l’assistente sociale non ha potere economico e rappresentativo: non
è il volano dell’industria farmaceutica e sanitaria, non è numericamente
rilevante.
La realtà dell’assistente sociale
è un’espiazione ben più triste di questi arcobaleni, che può solo sognare.
Paolo Pajer |
Paolo Pajer è assistente sociale e scrittore: ha pubblicato Il
punto estremo - Erga Edizioni, 2012; pubblicherà a ottobre 2017 per Edizioni Il Ciliegio il romanzo Per
altre vite, una storia che ha per protagonista proprio
un assistente sociale.
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