Proponiamo un articolo sul folklore e la tradizione del Capodanno
scritto da Paola Rocco il cui romanzo, “La carezza del ragno,” sarà nelle
librerie fra pochi giorni. Il pezzo è già apparso sulla rivista on-line “Vivavoce”.
Mangiar carote, lenticchie o
piselli garantisce un'annata prospera, bere birra fresca fa ringiovanire: le
usanze e le superstizioni legate alla notte di Capodanno, la magica notte a
cavallo tra un anno e l'altro, sono davvero numerosissime.
Tutti sanno, comunque, che per
propiziarsi la sorte è bene indossare qualcosa di nuovo e di rosso, con
analogia al rinnovarsi del ciclo delle stagioni nel solstizio invernale.
Capodanno segna infatti un momento di passaggio e rigenerazione a conclusione
dei dodici mesi dell’anno e per questo motivo il suo numero simbolico è il 13,
con allusione appunto al rinnovamento ma anche alla ripetizione del carosello
stagionale.
Nei tarocchi, il numero tredici
corrisponde all’Arcano della Morte, che vi è raffigurata tradizionalmente in
mantello nero, falce e scheletro: ogni passaggio da un vecchio a un nuovo stato
è infatti una sorta di ‘morte’.
Quest’associazione è tuttavia uno
dei motivi per cui al 13 viene spesso attribuito un significato negativo (oltre
al fatto che all’Ultima Cena parteciparono tredici convitati, i dodici Apostoli
e il Cristo), benché la radice profonda della negatività che circonda questo
numero risieda nel fatto che “il 13 è uno dei numeri che va oltre ogni sistema
chiuso, tant’è vero che nelle fiabe nessuno può aprire impunemente la
tredicesima porta” (A. Cattabiani, ‘Lunario’).
Un discorso a parte vale per gli
inglesi, per i quali il 13 è il numero del boia (ossia, ancora, della morte) in
quanto in passato la paga di quest’ultimo ammontava a uno scellino e un penny,
cioè appunto 13 pence.
Comunque tutto il periodo legato
al solstizio d’inverno era considerato sacro nell’antica Roma e celebrato con
le feste dei Saturnali (dal 17 al 24 dicembre), così dette in onore di Saturno,
il dio dell’età dell’oro che presiedeva alla rinascita annuale del cosmo
profondendo doni. Di qui anche l’uso di scambiarsi regali o ‘strenne’: il
termine risale al latino Strenia, dea d’origine sabina apportatrice di fortuna
e felicità.
In un boschetto sulla via Sacra a
lei consacrato i Romani fin dall’antichità usavano coglier ramoscelli e piccoli
arbusti da donare ad amici e parenti in questo periodo dell’anno, per buon
augurio. Sembra che alla benefica dea Strenia si possa far risalire la figura
della Befana, strega propizia che dispensa, anche lei, doni e fortuna.
Legato al solstizio invernale è
poi uno degli arbusti simbolo del Natale, il vischio, che gli antichi Celti
usavano raccogliere appunto nella sesta notte dopo il solstizio, detta ‘notte
madre’, e appendere sulla soglia di casa per assicurarsi la felicità. Presso
questo popolo il vischio, pianta semiparassita e sempreverde in genere ospitata
da querce e meli selvatici, era considerato magico proprio perché non aveva
radici, ma cresceva liberamente sugli alberi librandosi a mezz’aria. Lo
coglievano i druidi, tagliandolo con un falcetto d’oro.
Oggi, in occasione del Natale -
detto in passato ‘giorno del pane’ - praticamente ovunque si usa mangiar cibi a
base di farina, che a seconda delle zone assumono nomi e aspetto diversi: c’è
il pandolce di Genova, con uvetta, cedro candito e pinoli; il panpepato umbro,
con miele, noci, mandorle, uva passa; la pinza veneta, con i frutti secchi, che
si mangia la notte della Vigilia davanti al focolare, come il panforte di
Siena; ha un profumo esotico il panvisco barese, di ascendenza turca, in cui il
fior di farina si sposa con la densa polvere di Cipro e il vincotto d’uva
moscata, carruba o fico.
Alcuni storici fanno risalire
l’usanza di mangiar cibi a base di farina all’antica Roma. Qui, infatti, il 25
dicembre, come racconta Plinio il Vecchio, in occasione della festa del Natalis
Solis Invicti - istituita per celebrare la rinascita del sole dopo il solstizio
invernale - si confezionavano appunto delle frittelle sacre di farinata. I
cristiani invece ricordano la frase del Cristo (“Io sono il Pane della Vita”) e
il suo incarnarsi nella notte di Natale a Betlemme, in ebraico “casa del pane”,
così detta forse perché circondata da campi di grano e destinata dunque a
granaio.
Tra parentesi, fu proprio per
contrastare il culto pagano del sole, fortemente diffuso a Roma, che la Chiesa
decise di celebrare il Natale di Cristo nello stesso giorno del Sole Invitto,
con l’intento di sostituire la propria festa a quella pagana, ricca di giochi e
cerimonie che attiravano anche i cristiani. Il 25 dicembre è quindi una data
convenzionale, che tra l’altro sembra contrastare storicamente con quanto
afferma il Vangelo di Luca, secondo cui il Bambino sarebbe venuto al mondo
nelle campagne di Betlemme e lì adorato dai pastori che vegliavano di notte
guardando le greggi: “Siccome i pastori ebrei partivano per i pascoli
all’inizio della primavera tornando in autunno, è evidente che il Cristo nacque
tra la fine di marzo e il primo autunno: tant’è vero che fino al principio del
IV secolo il Natale veniva festeggiato, secondo i luoghi, o il 28 marzo o il 18
aprile o il 29 maggio” (A. Cattabiani, ‘Lunario’).
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