22/08/17

"F81 fuori e dentro" per aiutare i bambini del Bufalini di Cesena


Prosegue anche sullo scorcio dell’estate l’iniziativa di Paola Radaelli e Silvia Zavalloni, autrici del libro “F81 fuori e dentro” la cui vendita prevede che una parte del ricavato sia devoluta al progetto “Pediatria a misura di bambino” dell’Ospedale Bufalini di Cesena.

L’iniziativa delle due autrici, che ha preso il via all’inizio dell’estate, è quella di coinvolgere i gestori delle strutture ricettive e degli stabilimenti balneari della riviera in particolare di Cervia, che sono spesso attrezzati con spazi dedicati ai bimbini e corredati da librerie.

“F81fuori e dentro” è un libro che parla dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento, chiamati DSA.  I DSA sono disturbi del neurosviluppo, identificati con il codice F81, che riguardano la capacità di leggere, scrivere e calcolare in modo corretto e fluente che si manifestano con l'inizio della scolarizzazione. In base al tipo di difficoltà specifica che comportano, i DSA si dividono in: dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia.

Scopo di questo libro è sensibilizzare gli adulti sulle caratteristiche dei DSA e fornire ai bambini che ne sono affetti e a quelli che non lo sono, uno strumento utile per conoscere meglio se stessi e chi convive con queste difficoltà, cosi da considerarle non come una malattia, a volte motivo di esclusione sociale, ma una preziosa caratteristica.

Il progetto vuole essere utile anche ad altri bambini, donando parte del ricavato dalle vendite al progetto ”Pediatria a misura di bambino” dell’Ospedale Bufalini di Cesena.

L’iniziativa è stata pensata e realizzata dalle autrici con il consenso dell’editore.   

Per l’acquisto di alcune copie del libro è possibile contattare:
Paola Redaelli 3475532534  - p.redaelli@hotmail.it
Silvia Zavalloni 3479852069 – silvia.zavalloni@alice.it

Silvia Zavalloni e Paola Redaelli





03/08/17

Ladri di mele: alla ricerca del peccato originale

Chi è e che cosa fa un assistente sociale? Che idea ci siamo fatti di questa figura? L’opinione più comune è quella di un impiegato di un ente pubblico al servizio dei cittadini in difficoltà. Una brava persona, dedita agli altri. Ma che cosa succede quando questa persona non riesce a risolvere un problema? E quali sono le sue ansie e le sue preoccupazioni quando è costretta a prendere delle decisioni difficili?Paolo Pajer, in questo articolo già apparso su una rivista nel 2011, ci propone un punto di vista inedito: appunto quello dell’assistente sociale.
Un focus illuminante di un’esperienza professionale oggi più che mai di grande attualità.
i.b.

di
Paolo Pajer

Qual è il peccato originale dell’assistente sociale? Che ha fatto di male questa professione oltraggiata, malpagata, vituperata, sottovalutata, disprezzata? Comunista se vista da destra, fascista se vista da sinistra. Una professione sulla quale tutti si accaniscono perché nessuno si preoccupa di tutelarla, tanto meno gli interessati.
Aver raggiunto la dignità accademica con il titolo di dottore non ha fatto concludere il patire di questa professione, da sempre compressa fra il mancato senso compiuto della propria nascita e l’attribuzione stratificata di responsabilità, mai rapportate nemmeno al livello contrattuale e di retribuzione. Ciò che cerca da sempre l’assistente sociale è l’autorevolezza e soprattutto il suo riconoscimento esterno, la sua legittimazione. Una specie di credito culturale e sociale, in termini di status, che permetta all’uomo o alla donna assistente sociale di non dover fare grandi giri di parole per spiegare al proprio figlio che mestiere faccia la madre o il padre. Si potrebbe dire: “Faccio il dottore”, ma presupporrebbe pregiudizialmente l’esercizio di una disciplina medica (un po’ come dire che essere americani significa essere statunitensi), mentre dire: “Faccio l’assistente sociale” comporta invece l’imbarazzo di non avere un riferimento concettuale chiaro e un insieme di attività caratterizzanti condivise.
L’assistente sociale si scontra troppo spesso con i pregiudizi che vari media hanno contribuito a diffondere riguardo la sua professione, che nel più frequente dei casi ruba i bambini. In un contesto socio-culturale affamato di capri espiatori non è pensabile che l’immagine dell’assistente sociale possa essere facilmente redenta, anche perché non interessa ad alcuno redimerla ed è funzionale al sistema. L’assistente sociale è una figura fragile e questo lo sanno bene i media, i politici e anche i cittadini/utenti. È una figura utile per scaricare le tensioni sociali e un comodo ammortizzatore delle inadempienze altrui. È un professionista che non è mai riuscito a collocarsi con sicurezza nella classificazione sociale italiana.
L’assistente sociale rischia di risultare, a differenza di altre professioni, un eccellente parafulmine della campagna di demonizzazione e destrutturazione della pubblica amministrazione e dei pubblici servizi. I cosiddetti fannulloni, animali astuti che nella fantasia comune si annidano come tumori in ogni settore del lavoro pubblico, sono ben identificabili con l’assenza della figura che dovrebbe esserci quando non c’è. Chi meglio dell’assistente sociale rappresenta questa presenza-assenza? Gli organici spolpati dei servizi sociali hanno tali carenze che gli effetti del turn-over, del burn-out (vera e propria malattia professionale) e del carico di lavoro degli operatori, poco visualizzabile e misurabile, vengono tacitamente intesi come la prova della metafisicità dell’assistente sociale. Il peso qualitativo ed emotivo di un lavoro basato sulla relazione di aiuto (con anziani, bambini, adulti, disabili, ecc.) non si riesce ad evidenziare facilmente.
E non riuscire ad esibire virilmente le proprie prestazioni lavorative rende amministrativamente invisibili e socialmente colpevoli.
L’assistente sociale deve perciò pagare dazio alla propria natura che, nell’esigenza di dicotimizzare la realtà, non si contraddistingue per essere carne né pesce, né altro.
Non è una figura sanitaria, ma può a pieno diritto parlare di benessere e salute, di autonomia e di non autosufficienza, di patologico e funzionale; non è una figura amministrativa, ma deve produrre continuamente atti e muoversi secondo principi e iter formali ben precisi. È un tecnico che non è un giurista, ma deve districarsi e conoscere leggi, regolamenti, linee guida, decreti e delibere; non può dirsi nemmeno uno psicologo, ma deve comprendere i meccanismi emotivi, mentali e di funzionamento di sé, del singolo, della coppia, della famiglia o del gruppo. L’assistente sociale non è un sociologo, ma deve conoscere fenomeni complessi come la devianza, l’appartenenza, la lettura del disagio in termini aggregati per poterne programmare politiche e progetti di intervento. Non è un economista ma non può ignorare le dinamiche del mercato del lavoro, del sistema previdenziale e pensionistico. Non è un informatico, ma deve sviluppare costantemente strumenti gestionali complessi per ottimizzare, gestire e dare senso al volume di lavoro su cui opera.
L’assistente sociale, nella sua straordinaria ed assoluta peculiarità, costruisce la propria identità professionale con un po’ di tutto questo. In realtà viene considerato solo un intero ri-costruito con dei frammenti, ma poi tutti salgono sulle sue spalle per vedere più lontano: per gestire dinamiche complesse, guarda un po’, serve sempre un assistente sociale.
Siamo sintesi della complessità: nei migliori dei casi stelle danzanti nate dal caos. Nel peggiore: una manciata di ingredienti che tentiamo di trasformare in una polpetta commestibile.
Cosa significa gestire (to manage, in inglese)? Credo che potremmo essere d’accordo nell’affermare che gestire significhi sovrintendere intenzionalmente ad un’attività. Detto questo possiamo affermare che le capacità gestionali dell’assistente sociale sono fra le più raffinate ed evolute che ci siano nel panorama delle professioni, e la motivazione è proprio la frammentazione delle attività e del proprio IO professionale e costitutivo, che costringe la logica e la sensibilità dell’assistente sociale ad adeguarsi costantemente alle pressioni e alle richieste che arrivano dall’esterno e ad adattare le proprie risorse e competenze a tali necessità. Proprio il contrario della specializzazione, che viene invece in genere sublimata per eccellenza.
L’assistente sociale, però, vorrebbe veder riconosciuta la sua eccellenza e la rincorre goffamente, tentando a volte la scalata alla specializzazione come strada per giungervi. In realtà l’assistente sociale rincorre il bisogno che gli è stato infuso in quanto “altro generalizzato”. Non basa il proprio concetto di sé su di un’eccellenza che gli è già propria, ma lo rincorre in un riconoscimento esterno che non avverrà mai. Cade paradossalmente vittima del tentacolo di uno dei rischi professionali di invischiamento che deve gestire (non cerca di generare una soluzione, ma ne attende gli esiti dall’esterno).
L’autonomia professionale, che spesso diventa solitudine professionale, unitamente alle difficoltà dell’assistente sociale di trovare un fertile confronto e supervisione professionale, corre un rischio: quello di diventare autoreferenzialità. La preparazione di base dell’assistente sociale, nella sua peculiare veste di interprete del disagio e collettore di risorse, è sufficiente allo scopo ma necessita di una costante alimentazione e “taratura” attraverso l’interazione qualificata, la supervisione professionale e la formazione permanente.
La richiesta quotidiana, delicata e difficile da gestire, che ancora una volta l’assistente sociale deve sostenere è quella di mantenere l’equilibrio fra autonomia di giudizio ed apertura al confronto. Per dirla in termini assoluti: fra oggettività e soggettività. L’approccio mentale dell’assistente sociale al lavoro è di tipo progettuale, pertanto circolare e sostanzialmente mai certo. Uno dei rischi intellettuali più grandi è dunque la mancanza di punti di riferimento precisi e soprattutto stabili, che concedono enormi vantaggi nella guerra di posizione che l’assistente sociale perde costantemente in relazione ad altre professioni più “scientifiche”.
Quali basi scientifiche possiamo allora rivendicare in una professione che, per molti versi, è interpretativa, pertanto vulnerabile e piena di variabili? Le discipline umanistiche hanno sempre avuto un po’ di invidia per le cugine scientifiche, con i loro eleganti modelli sperimentali. Non si riflette sufficientemente però che anche il medico, figura semi-divina in termini di bontà (chi cura deve per definizione volere-bene), per affrontare una banale influenza spesso prescrive farmaci di cui ignora la reale efficacia o i rischi collaterali. La scientificità spesso è una credenziale erroneamente pre-attribuita. Tutto quello che può accadere nella malattia (peggioramenti, cronicità, nuovi sintomi) mediamente non lo si attribuisce ad un limite del medico-scienziato-santo: sarebbe peccato.
Quello che invece si chiede all’assistente sociale è concettualmente rovesciato: bisogna affrontare il disagio sviluppando e attivando progetti e interventi che dovranno e potranno avere solo esito favorevole, altrimenti si confermerà la sua incompetenza. Chi è buono per definizione può anche sbagliare, ma chi è assistente sociale parte con un peccato originale più pesante e deve sempre rincorrere la propria redenzione.
L’assistente sociale è supportato in questo quadro tragico da una mancanza di senso di appartenenza della propria comunità professionale. La cosa non accade quasi mai nelle altre professioni “nobili”, dove i panni sporchi si lavano tendenzialmente in casa, ma esternamente vige quanto meno il principio del “cane che non morde il cane”. Provate a criticare l’operato di un assistente sociale con un altro assistente sociale e vedrete se troverete appoggio o difesa del collega. Ma la vera caratteristica che fa dell’assistente sociale un animale a serio rischio di estinzione è il suo adattamento al cannibalismo. Mettere un assistente sociale a capo di qualcosa significa proporgli due prospettive: essere eliminato prima o poi dall’organizzazione in quanto in contrapposizione con il pensiero dominante oppure convertirsi al feudalesimo. Il desiderio-necessità di accondiscendere al signorotto-superiore, che in genere è incompetente in materia, lo rende impermeabile a tutto e un efficiente braccio operativo, anche e soprattutto in termini professionalmente autolesionistici. Il superiore gerarchico è in genere un medico, un sociologo o qualsiasi altra cosa, ma molto raramente un altro assistente sociale. Perché? Ma è ovvio: non serve conoscere la peculiarità del servizio sociale e delle sue regole per poterlo dirigere. Vige sempre il sacro dogma che il bene lo sappiamo fare tutti (eredità della socializzazione secondaria?).
Siamo una professione orfana, nel senso che siamo sempre alla ricerca del padre. Il padre sarebbe colui che approva, colui che dà luce a noi poveri satelliti spenti costretti a gravitare attorno all’astro di turno. Forse cerchiamo la metà che manca al nostro senso di identità, quel lato oscuro che è la somma di tante parzialità. Perché mai non è il contrario? Perché gli altri non si sentono attratti dal bisogno della nostra approvazione? Cosa manca all’assistente sociale per generare credibilità? È forse legato a questa dinamica il curioso fenomeno che ogni esigenza degli altri (specialmente degli utenti) sia più importante di quelli dell’assistente sociale (vincoli organizzativi, amministrativi, professionali, ecc.)? Perché si deve arrivare a rischiare professionalmente (e personalmente) per diminuire preventivamente il disagio altrui? Accettiamo passivamente condizioni lavorative estreme, facciamo colloqui da soli in ambienti inospitali, con persone potenzialmente stressate e aggressive, anche fuori orario di servizio. Parliamo con chiunque si presenti, anche fuori orario di ricevimento. E chi non si prostra inizia a percepire sulla nuca il peso della colpa. Tutto questo per il “bene” dell’utente. Ma è davvero un “bene”?
È una dinamica diffusa, inoltre, quella dell’amministratore pubblico che per vari motivi promette case, soldi, lavoro e poi scarica sull’assistente sociale (spesso ignaro) l’onere del mantenimento della promessa. E se ciò non si realizzasse si confermerebbe l’incapacità di cui sopra.
Perché non viene rescisso il cordone ombelicale che l’assistente sociale genera nei confronti dell’altro? Cerchiamo di evocare il padre assente con questo surrogato di iperprotettività?
Forse solo quando riusciremo ad avere maggiore consapevolezza del nostro valore a prescindere da tutto e da tutti potremo emanciparci anche come professione ed ottenere il riconoscimento dovuto. Ma l’assistente sociale non ha potere economico e rappresentativo: non è il volano dell’industria farmaceutica e sanitaria, non è numericamente rilevante.
La realtà dell’assistente sociale è un’espiazione ben più triste di questi arcobaleni, che può solo sognare.

                                                                                                                

Paolo Pajer



Paolo Pajer è assistente sociale e scrittore: ha pubblicato Il punto estremo - Erga Edizioni, 2012; pubblicherà a ottobre 2017 per Edizioni Il Ciliegio il romanzo Per altre vite, una storia che ha per protagonista proprio un assistente sociale.