19/12/17

Vuoi conoscere un casino? Un libro per tutte le età

di
Ivan Bavuso



Quando Alex Astrid mi ha chiesto di partecipare al tour dei blog di promozione al suo romanzo ho subito accettato. In primo luogo perché il curatore del blog della casa editrice che ha pubblicato il libro oggetto dell’iniziativa, non poteva certo esimersi dall’accogliere una simile proposta; in secondo luogo perché questo romanzo lo ho editato e impaginato e, di conseguenza, mi ci sono affezionato.
«Va bene» ho scritto via e-mail ad Alex: «Fammi solo sapere l’angolatura dell’articolo».
«Per tutte le età» mi ha risposto. Era una prospettiva impegnativa e interessante, ma soprattutto oculata da parte di una ragazza intelligente.
Alex è molto giovane e quando scrisse Vuoi conoscere un casino? frequentava ancora il liceo, io invece ho poco più del doppio dei suoi anni e potrei essere suo padre. Alex non me lo ha detto esplicitamente, ma ho intuito che non ama l’idea che il suo libro venga imprigionato in un genere letterario, seppure alla moda, come quello dello young-adult. O meglio, Alex è convinta che questo genere di libri possa essere letto anche da persone più mature. E sapete cosa vi dico? Alex ha ragione.
Mole volte noi adulti liquidiamo le istanze dei giovani accusandoli di essere superficiali, di non capire che la vita vera - quella al di fuori della bambagia in cui noi siamo convinti che questi ragazzi vivano - è tutto un altro affare rispetto alle loro problematiche. Ho riflettuto su questo tipo di pregiudizi e mi sono posto delle domande: E se fossimo noi adulti a essere dei bigotti nichilisti? Se ce la prendessimo con i giovani solo perché non lo siamo più e ci siamo dimenticati di esserlo stati? Quante volte abbiamo sentito dire: «I ragazzi non sono più quelli di una volta!» Ma come erano i ragazzi di una volta? Come ero io? Come saranno i miei figli? Be'... delle vere risposte non sono stato capace di darmele; tuttavia ho compreso che certe dinamiche sociali che coinvolgono gli adolescenti, certe situazioni emotive di un tempo non sono poi tanto diverse da quelle di oggi.
Con il romanzo Vuoi conoscere un casino? sono stato costretto a tornare indietro, pur nella consapevolezza di essere un uomo maturo. Nello “sporcarmi le mani” con la trama, i personaggi, le tematiche di questo libro, mi sono ritrovato a seguire con attenzione le vicende di una liceale (alter ego dell’autrice) e quelle dei suoi amici che, nel loro percorso di crescita, vengono investiti da quelli che sono e saranno sempre i grandi temi dell’umanità: la morte, l’amore, l’amicizia, il coraggio, il senso di inadeguatezza, la presunzione, le dipendenze, il conflitto generazionale, il sesso. Nel romanzo di Astrid c’è tutto questo e posso assicurarvi che non è poco.


Vuoi conoscere un casino?
Vuoi conoscere un casino?

Alex Astrid è nata il 7 giugno 1998, vive a Inzago, in provincia di Milano.  Ha frequentato il liceo linguistico Simone Weil di Treviglio. Dopo il romanzo Guardami, che ha auto pubblicato con ILMIOLIBRO, Edizioni Il Ciliegio ha compreso le potenzialità e ha deciso di pubblicare il suo secondo romanzo intitolato Vuoi conoscere un casino? Nella collana teenager.




28/10/17

Halloween, o la notte delle streghe

L’autrice Paola Rocco, esperta di tradizioni e folclore, spiega, in questo lungo articolo, l’origine della notte delle streghe.

Zucche di Halloween dietro una vetrina

di Paola Rocco

Dalla festa celtica in onore di Samhain alle zucche intagliate della tradizione americana: tutti i segreti della ricorrenza più paurosa dell'anno.

Zucche di cartapesta, ragnatele di zucchero filato, ragni di plastica fosforescente che brillano nel buio, streghe e vampiri in libera uscita per le strade: da qualche anno la festa di Halloween è entrata a far parte delle ricorrenze più attese dalla popolazione (non solo infantile) del nostro Paese, che approfitta della notte delle streghe per dar vita a una specie di Carnevale anticipato.
Acquisto recente nella nostra tradizione, Halloween ha in realtà origini antichissime: il 31 ottobre si celebrava infatti la festa celtica in onore di Samhain, principe dei morti e delle tenebre, quando si credeva che le leggi dello spazio e del tempo fossero sospese e il mondo degli spiriti tornasse a intrecciarsi con quello dei vivi. Di qui l'usanza di spaventare i defunti con travestimenti macabri o luci accese alle finestre (il fuoco protegge dagli spiriti) o, ancora, il tentativo di sventare i loro eventuali dispetti con offerte di latte o pane, che venivano lasciate fuori dalla porta o accanto al camino. Sembra che la classica domanda Dolcetto o scherzetto? dei bambini americani ricordi appunto questa tradizione. Col passar del tempo, la festa di Samhain si è fusa con la ricorrenza cristiana di Ognissanti: Halloween, infatti, è la contrazione dell'espressione inglese All Hallow's Eve, ossia Festa di Tutti i Santi.

Gatti neri e "ratti volanti", gli animali della notte delle streghe
Pipistrelli, gatti neri, civette, gufi: sono questi gli animali che più comunemente si associano alla notte delle streghe. I primi, oltre che per il loro aspetto sinistro e la loro natura ambigua, doppia, di "ratti volanti", suscitavano l'avversione degli abitanti dei villaggi per le numerose leggende che li dipingevano come vampiri travestiti. Anche il fatto che fossero in grado di svolazzare sopra le fiamme dei falò accesi la notte del 31 (proprio per scacciare gli spiriti maligni) generava nei loro confronti non poche antipatie. I gatti, specie se neri, furono ritenuti per secoli i famigli o servitori più fedeli delle streghe o anche streghe camuffate loro stessi, mentre civette e gufi erano considerati uccelli di malaugurio, e udirne il verso un sicuro preannuncio di sventura.

Tarocchi e mele rosse per sbirciare nel futuro
Un tempo si credeva che, durante la notte di Halloween, le predizioni e i tentativi di sbirciare nel futuro avrebbero avuto più successo che in ogni altro giorno dell'anno: la si riteneva, ad esempio, una notte adatta per farsi leggere i tarocchi dalla strega buona di turno. Ma non mancavano neppure sistemi di divinazione più casalinghi, come quello a base di comunissime mele rosse: chi la vigilia di Ognissanti, spaccandone una a metà, avesse trovato nell'interno due semini, sarebbe andato all'altare entro breve. Tre semini annunciavano una prossima eredità, quattro grandi guadagni.
In Francia e in Irlanda si prepara ancora oggi il callcannon, un piatto a base di patate, cipolle soffritte e pane, che nasconde nell'impasto vari piccoli oggetti, come anelli o bamboline, ognuno con un significato. Chi ne trova uno nella sua fetta, avrà in sorte il destino corrispondente.

Il mese dei morti a Roma
A Roma il mese di novembre era per tradizione il mese dei morti, cioè quello dedicato alle celebrazioni in memoria dei defunti, che si svolgevano in tutte le chiese della capitale e nei vari camposanti cittadini (a San Giovanni in Laterano, Santa Maria in Trastevere, Santo Spirito). Una delle più solenni aveva luogo presso la chiesa di Santa Maria dell'Orazione e Morte in via Giulia, per l'occasione addobbata lugubremente con drappi neri, ceri accesi e fiori. Veniva esposto anche un catafalco fatto di teschi e ossa, mentre due scheletri, con in mano falce e clessidra, ammonivano: "Ancor noi fummo, come voi, che qui venite…". Inutile dire che la macabra cerimonia aveva un forte impatto sull'immaginazione della folla dei fedeli, che per tutto l'Ottocento conservò l'abitudine di frequentare in massa anche la cappella sotterranea della chiesa, simile al cimitero dei Cappuccini, che ancora oggi esiste, in via Veneto.
La sera del 31 ottobre era invece, per tradizione, dedicata alla lettura dei tarocchi e a pratiche magiche di vario genere, molte delle quali allo scopo di evitare che gli spiriti dei defunti vaganti nella notte tornassero a infastidire i viventi. Per cercar d'ingraziarseli, molti romani usavano lasciare sul davanzale della finestra o accanto alla porta di casa (o, ancora, presso il focolare) piccole offerte, in genere a base di latte e pane, che avrebbero assicurato alla famiglia protezione e fortuna per tutto il resto dell'anno.

La zucca di Jack O' Lantern
L'usanza di accender candele all'interno di zucche intagliate deriva dalla leggenda irlandese che ha per protagonista Jack O' Lantern, un astuto ubriacone che riuscì per ben due volte a beffare il demonio, imprigionandolo e togliendogli ogni potere. Una volta morto, Jack, scacciato dal paradiso, andò a bussare alle porte dell'inferno, ma il diavolo, memore dei tiri mancini che gli aveva giocato, non volle riceverlo, e gli tirò dietro una candela accesa perché gli facesse luce nel viaggio di ritorno. Per riparare la fiamma dal vento, Jack la mise in una rapa bucherellata, servendosene poi come di una lampada: e da allora vaga nella notte, in attesa del Giudizio.
La leggenda fu importata in America dagli emigranti irlandesi, circa un secolo fa. E' nel nuovo continente che le rape si trasformano in zucche, di maggiori dimensioni e più facili da intagliare, diventando l'elemento più caratteristico della festa di Halloween. La notte del 31, in quasi tutte le abitazioni compare, sul davanzale della finestra o i gradini dell'ingresso, la classica zucca intagliata a mo' di faccia, spesso nel modo più sinistro possibile, per dissuadere dall'avvicinarsi le anime inquiete che, come Jack, cercano la via di casa.

Linus, o dell'Halloween alternativo
Non tutti i bambini d'America aspettano con ansia Halloween per mettere la zucca alla finestra e girare per le case a chieder dolcetti, abbigliati da fate o vampiri. Uno dei piccoli americani più famosi del mondo, infatti, non crede nella notte delle streghe e si rifiuta da sempre di festeggiarla nel modo consueto. E' Linus, il membro più giovane della famiglia Van Pelt (almeno fino alla nascita del fratellino Ripresa, che, come dice il nome, è la sua replica perfetta), a non cedere all'appuntamento di fine ottobre, sottraendosi ostinatamente al rituale del dolcetto o scherzetto. Nato dalla penna di Charles Schulz insieme a tutti gli altri protagonisti delle strisce dei Peanuts, Linus è solito trascorrere la notte di Halloween in perfetta solitudine, accovacciato nell'orto dei cocomeri vicino casa, gli occhi fissi al cielo nel tentativo d'individuare Il Grande Cocomero, fantomatica divinità a metà tra un'enorme zucca e Babbo Natale (che appare, sostiene la leggenda, solo al possessore dell'orto più sincero). Inutili gli sforzi di amici e parenti per distoglierlo dalla sua ossessione. Si registrano, invece, numerosi tentativi di proselitismo da parte sua. Uno, in particolare, vede protagonista la piccola Sally, combattiva sorellina di Charlie Brown, che in uno degli episodi acconsente a trascorrere la notte nell'orto dei cocomeri, rinunciando a un ricco bottino di dolcetti. Salvo, il mattino dopo, rendersi conto che nessuna divinità si è manifestata e chiedere a gran voce d'esser risarcita.

Halloween al cinema
La notte delle streghe ha spesso suscitato l'interesse di soggettisti e registi, in molti casi d'oltre oceano, che su questa particolare ricorrenza hanno imbastito a volte vere saghe dell'orrore. Una delle più celebri è quella avviata da John Carpenter con il fortunatissimo Halloween, la notte delle streghe, del 1978, in cui un maniaco omicida fugge dal manicomio (dov'è stato internato quindici anni prima per aver ucciso la sorella) e fa un massacro. Il tutto, naturalmente, la sera del 31 ottobre. Seguono Halloween 2, il signore della morte di Rick Rosenthal, Halloween 3, il signore della notte di Tommy Wallace e poi ancora Halloween 4, Halloween 5 e Halloween 6 - La maledizione di Michael Myers. Senza dimenticare l'ormai mitico Scream di Wes Craven, in cui un assassino che indossa una maschera della Morte modellata sull'Urlo di Munch fa scempio di adolescenti dopo averli interrogati sui classici dell'orrore. Per cercare di prevederne le mosse, i superstiti si riuniscono davanti a una videocassetta che sperano possa dar loro qualche suggerimento: si tratta, non a caso, dell'Halloween di Carpenter.
Insomma, se avete voglia di festeggiare in casa la sera del 31, magari con qualche amico e una fetta di torta al cioccolato decorata con pipistrelli e mostri di zucchero (compaiono ogni anno in tutte le pasticcerie, insieme a molte altre leccornie rigorosamente a tema) non c'è che l'imbarazzo della scelta. Buona visione e, a proposito… dolcetto o scherzetto?


Paola Rocco è nata a Roma nel 1969. Dopo la Laurea in Lettere conseguita all’Università La Sapienza ha collaborato con diverse testate giornalistiche e agenzie di stampa. Al suo attivo anche esperienze di insegnante di letteratura italiana, lingua e letteratura latina e storia medioevale, moderna e contemporanea. Nel 2013 il suo racconto Isola è stato pubblicato su NuoveStorie.it, il sito de “la Repubblica” dedicato ai nuovi autori. La carezza del ragno, pubblicato da Edizioni Il Ciliegio è il suo primo romanzo







22/08/17

"F81 fuori e dentro" per aiutare i bambini del Bufalini di Cesena


Prosegue anche sullo scorcio dell’estate l’iniziativa di Paola Radaelli e Silvia Zavalloni, autrici del libro “F81 fuori e dentro” la cui vendita prevede che una parte del ricavato sia devoluta al progetto “Pediatria a misura di bambino” dell’Ospedale Bufalini di Cesena.

L’iniziativa delle due autrici, che ha preso il via all’inizio dell’estate, è quella di coinvolgere i gestori delle strutture ricettive e degli stabilimenti balneari della riviera in particolare di Cervia, che sono spesso attrezzati con spazi dedicati ai bimbini e corredati da librerie.

“F81fuori e dentro” è un libro che parla dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento, chiamati DSA.  I DSA sono disturbi del neurosviluppo, identificati con il codice F81, che riguardano la capacità di leggere, scrivere e calcolare in modo corretto e fluente che si manifestano con l'inizio della scolarizzazione. In base al tipo di difficoltà specifica che comportano, i DSA si dividono in: dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia.

Scopo di questo libro è sensibilizzare gli adulti sulle caratteristiche dei DSA e fornire ai bambini che ne sono affetti e a quelli che non lo sono, uno strumento utile per conoscere meglio se stessi e chi convive con queste difficoltà, cosi da considerarle non come una malattia, a volte motivo di esclusione sociale, ma una preziosa caratteristica.

Il progetto vuole essere utile anche ad altri bambini, donando parte del ricavato dalle vendite al progetto ”Pediatria a misura di bambino” dell’Ospedale Bufalini di Cesena.

L’iniziativa è stata pensata e realizzata dalle autrici con il consenso dell’editore.   

Per l’acquisto di alcune copie del libro è possibile contattare:
Paola Redaelli 3475532534  - p.redaelli@hotmail.it
Silvia Zavalloni 3479852069 – silvia.zavalloni@alice.it

Silvia Zavalloni e Paola Redaelli





03/08/17

Ladri di mele: alla ricerca del peccato originale

Chi è e che cosa fa un assistente sociale? Che idea ci siamo fatti di questa figura? L’opinione più comune è quella di un impiegato di un ente pubblico al servizio dei cittadini in difficoltà. Una brava persona, dedita agli altri. Ma che cosa succede quando questa persona non riesce a risolvere un problema? E quali sono le sue ansie e le sue preoccupazioni quando è costretta a prendere delle decisioni difficili?Paolo Pajer, in questo articolo già apparso su una rivista nel 2011, ci propone un punto di vista inedito: appunto quello dell’assistente sociale.
Un focus illuminante di un’esperienza professionale oggi più che mai di grande attualità.
i.b.

di
Paolo Pajer

Qual è il peccato originale dell’assistente sociale? Che ha fatto di male questa professione oltraggiata, malpagata, vituperata, sottovalutata, disprezzata? Comunista se vista da destra, fascista se vista da sinistra. Una professione sulla quale tutti si accaniscono perché nessuno si preoccupa di tutelarla, tanto meno gli interessati.
Aver raggiunto la dignità accademica con il titolo di dottore non ha fatto concludere il patire di questa professione, da sempre compressa fra il mancato senso compiuto della propria nascita e l’attribuzione stratificata di responsabilità, mai rapportate nemmeno al livello contrattuale e di retribuzione. Ciò che cerca da sempre l’assistente sociale è l’autorevolezza e soprattutto il suo riconoscimento esterno, la sua legittimazione. Una specie di credito culturale e sociale, in termini di status, che permetta all’uomo o alla donna assistente sociale di non dover fare grandi giri di parole per spiegare al proprio figlio che mestiere faccia la madre o il padre. Si potrebbe dire: “Faccio il dottore”, ma presupporrebbe pregiudizialmente l’esercizio di una disciplina medica (un po’ come dire che essere americani significa essere statunitensi), mentre dire: “Faccio l’assistente sociale” comporta invece l’imbarazzo di non avere un riferimento concettuale chiaro e un insieme di attività caratterizzanti condivise.
L’assistente sociale si scontra troppo spesso con i pregiudizi che vari media hanno contribuito a diffondere riguardo la sua professione, che nel più frequente dei casi ruba i bambini. In un contesto socio-culturale affamato di capri espiatori non è pensabile che l’immagine dell’assistente sociale possa essere facilmente redenta, anche perché non interessa ad alcuno redimerla ed è funzionale al sistema. L’assistente sociale è una figura fragile e questo lo sanno bene i media, i politici e anche i cittadini/utenti. È una figura utile per scaricare le tensioni sociali e un comodo ammortizzatore delle inadempienze altrui. È un professionista che non è mai riuscito a collocarsi con sicurezza nella classificazione sociale italiana.
L’assistente sociale rischia di risultare, a differenza di altre professioni, un eccellente parafulmine della campagna di demonizzazione e destrutturazione della pubblica amministrazione e dei pubblici servizi. I cosiddetti fannulloni, animali astuti che nella fantasia comune si annidano come tumori in ogni settore del lavoro pubblico, sono ben identificabili con l’assenza della figura che dovrebbe esserci quando non c’è. Chi meglio dell’assistente sociale rappresenta questa presenza-assenza? Gli organici spolpati dei servizi sociali hanno tali carenze che gli effetti del turn-over, del burn-out (vera e propria malattia professionale) e del carico di lavoro degli operatori, poco visualizzabile e misurabile, vengono tacitamente intesi come la prova della metafisicità dell’assistente sociale. Il peso qualitativo ed emotivo di un lavoro basato sulla relazione di aiuto (con anziani, bambini, adulti, disabili, ecc.) non si riesce ad evidenziare facilmente.
E non riuscire ad esibire virilmente le proprie prestazioni lavorative rende amministrativamente invisibili e socialmente colpevoli.
L’assistente sociale deve perciò pagare dazio alla propria natura che, nell’esigenza di dicotimizzare la realtà, non si contraddistingue per essere carne né pesce, né altro.
Non è una figura sanitaria, ma può a pieno diritto parlare di benessere e salute, di autonomia e di non autosufficienza, di patologico e funzionale; non è una figura amministrativa, ma deve produrre continuamente atti e muoversi secondo principi e iter formali ben precisi. È un tecnico che non è un giurista, ma deve districarsi e conoscere leggi, regolamenti, linee guida, decreti e delibere; non può dirsi nemmeno uno psicologo, ma deve comprendere i meccanismi emotivi, mentali e di funzionamento di sé, del singolo, della coppia, della famiglia o del gruppo. L’assistente sociale non è un sociologo, ma deve conoscere fenomeni complessi come la devianza, l’appartenenza, la lettura del disagio in termini aggregati per poterne programmare politiche e progetti di intervento. Non è un economista ma non può ignorare le dinamiche del mercato del lavoro, del sistema previdenziale e pensionistico. Non è un informatico, ma deve sviluppare costantemente strumenti gestionali complessi per ottimizzare, gestire e dare senso al volume di lavoro su cui opera.
L’assistente sociale, nella sua straordinaria ed assoluta peculiarità, costruisce la propria identità professionale con un po’ di tutto questo. In realtà viene considerato solo un intero ri-costruito con dei frammenti, ma poi tutti salgono sulle sue spalle per vedere più lontano: per gestire dinamiche complesse, guarda un po’, serve sempre un assistente sociale.
Siamo sintesi della complessità: nei migliori dei casi stelle danzanti nate dal caos. Nel peggiore: una manciata di ingredienti che tentiamo di trasformare in una polpetta commestibile.
Cosa significa gestire (to manage, in inglese)? Credo che potremmo essere d’accordo nell’affermare che gestire significhi sovrintendere intenzionalmente ad un’attività. Detto questo possiamo affermare che le capacità gestionali dell’assistente sociale sono fra le più raffinate ed evolute che ci siano nel panorama delle professioni, e la motivazione è proprio la frammentazione delle attività e del proprio IO professionale e costitutivo, che costringe la logica e la sensibilità dell’assistente sociale ad adeguarsi costantemente alle pressioni e alle richieste che arrivano dall’esterno e ad adattare le proprie risorse e competenze a tali necessità. Proprio il contrario della specializzazione, che viene invece in genere sublimata per eccellenza.
L’assistente sociale, però, vorrebbe veder riconosciuta la sua eccellenza e la rincorre goffamente, tentando a volte la scalata alla specializzazione come strada per giungervi. In realtà l’assistente sociale rincorre il bisogno che gli è stato infuso in quanto “altro generalizzato”. Non basa il proprio concetto di sé su di un’eccellenza che gli è già propria, ma lo rincorre in un riconoscimento esterno che non avverrà mai. Cade paradossalmente vittima del tentacolo di uno dei rischi professionali di invischiamento che deve gestire (non cerca di generare una soluzione, ma ne attende gli esiti dall’esterno).
L’autonomia professionale, che spesso diventa solitudine professionale, unitamente alle difficoltà dell’assistente sociale di trovare un fertile confronto e supervisione professionale, corre un rischio: quello di diventare autoreferenzialità. La preparazione di base dell’assistente sociale, nella sua peculiare veste di interprete del disagio e collettore di risorse, è sufficiente allo scopo ma necessita di una costante alimentazione e “taratura” attraverso l’interazione qualificata, la supervisione professionale e la formazione permanente.
La richiesta quotidiana, delicata e difficile da gestire, che ancora una volta l’assistente sociale deve sostenere è quella di mantenere l’equilibrio fra autonomia di giudizio ed apertura al confronto. Per dirla in termini assoluti: fra oggettività e soggettività. L’approccio mentale dell’assistente sociale al lavoro è di tipo progettuale, pertanto circolare e sostanzialmente mai certo. Uno dei rischi intellettuali più grandi è dunque la mancanza di punti di riferimento precisi e soprattutto stabili, che concedono enormi vantaggi nella guerra di posizione che l’assistente sociale perde costantemente in relazione ad altre professioni più “scientifiche”.
Quali basi scientifiche possiamo allora rivendicare in una professione che, per molti versi, è interpretativa, pertanto vulnerabile e piena di variabili? Le discipline umanistiche hanno sempre avuto un po’ di invidia per le cugine scientifiche, con i loro eleganti modelli sperimentali. Non si riflette sufficientemente però che anche il medico, figura semi-divina in termini di bontà (chi cura deve per definizione volere-bene), per affrontare una banale influenza spesso prescrive farmaci di cui ignora la reale efficacia o i rischi collaterali. La scientificità spesso è una credenziale erroneamente pre-attribuita. Tutto quello che può accadere nella malattia (peggioramenti, cronicità, nuovi sintomi) mediamente non lo si attribuisce ad un limite del medico-scienziato-santo: sarebbe peccato.
Quello che invece si chiede all’assistente sociale è concettualmente rovesciato: bisogna affrontare il disagio sviluppando e attivando progetti e interventi che dovranno e potranno avere solo esito favorevole, altrimenti si confermerà la sua incompetenza. Chi è buono per definizione può anche sbagliare, ma chi è assistente sociale parte con un peccato originale più pesante e deve sempre rincorrere la propria redenzione.
L’assistente sociale è supportato in questo quadro tragico da una mancanza di senso di appartenenza della propria comunità professionale. La cosa non accade quasi mai nelle altre professioni “nobili”, dove i panni sporchi si lavano tendenzialmente in casa, ma esternamente vige quanto meno il principio del “cane che non morde il cane”. Provate a criticare l’operato di un assistente sociale con un altro assistente sociale e vedrete se troverete appoggio o difesa del collega. Ma la vera caratteristica che fa dell’assistente sociale un animale a serio rischio di estinzione è il suo adattamento al cannibalismo. Mettere un assistente sociale a capo di qualcosa significa proporgli due prospettive: essere eliminato prima o poi dall’organizzazione in quanto in contrapposizione con il pensiero dominante oppure convertirsi al feudalesimo. Il desiderio-necessità di accondiscendere al signorotto-superiore, che in genere è incompetente in materia, lo rende impermeabile a tutto e un efficiente braccio operativo, anche e soprattutto in termini professionalmente autolesionistici. Il superiore gerarchico è in genere un medico, un sociologo o qualsiasi altra cosa, ma molto raramente un altro assistente sociale. Perché? Ma è ovvio: non serve conoscere la peculiarità del servizio sociale e delle sue regole per poterlo dirigere. Vige sempre il sacro dogma che il bene lo sappiamo fare tutti (eredità della socializzazione secondaria?).
Siamo una professione orfana, nel senso che siamo sempre alla ricerca del padre. Il padre sarebbe colui che approva, colui che dà luce a noi poveri satelliti spenti costretti a gravitare attorno all’astro di turno. Forse cerchiamo la metà che manca al nostro senso di identità, quel lato oscuro che è la somma di tante parzialità. Perché mai non è il contrario? Perché gli altri non si sentono attratti dal bisogno della nostra approvazione? Cosa manca all’assistente sociale per generare credibilità? È forse legato a questa dinamica il curioso fenomeno che ogni esigenza degli altri (specialmente degli utenti) sia più importante di quelli dell’assistente sociale (vincoli organizzativi, amministrativi, professionali, ecc.)? Perché si deve arrivare a rischiare professionalmente (e personalmente) per diminuire preventivamente il disagio altrui? Accettiamo passivamente condizioni lavorative estreme, facciamo colloqui da soli in ambienti inospitali, con persone potenzialmente stressate e aggressive, anche fuori orario di servizio. Parliamo con chiunque si presenti, anche fuori orario di ricevimento. E chi non si prostra inizia a percepire sulla nuca il peso della colpa. Tutto questo per il “bene” dell’utente. Ma è davvero un “bene”?
È una dinamica diffusa, inoltre, quella dell’amministratore pubblico che per vari motivi promette case, soldi, lavoro e poi scarica sull’assistente sociale (spesso ignaro) l’onere del mantenimento della promessa. E se ciò non si realizzasse si confermerebbe l’incapacità di cui sopra.
Perché non viene rescisso il cordone ombelicale che l’assistente sociale genera nei confronti dell’altro? Cerchiamo di evocare il padre assente con questo surrogato di iperprotettività?
Forse solo quando riusciremo ad avere maggiore consapevolezza del nostro valore a prescindere da tutto e da tutti potremo emanciparci anche come professione ed ottenere il riconoscimento dovuto. Ma l’assistente sociale non ha potere economico e rappresentativo: non è il volano dell’industria farmaceutica e sanitaria, non è numericamente rilevante.
La realtà dell’assistente sociale è un’espiazione ben più triste di questi arcobaleni, che può solo sognare.

                                                                                                                

Paolo Pajer



Paolo Pajer è assistente sociale e scrittore: ha pubblicato Il punto estremo - Erga Edizioni, 2012; pubblicherà a ottobre 2017 per Edizioni Il Ciliegio il romanzo Per altre vite, una storia che ha per protagonista proprio un assistente sociale.


29/05/17

The Abramovic Method for Kids Experience

di Lucia Cannone

Sono trascorsi quasi tre mesi dall’uscita del primo volume della nuova collana editoriale stART edita da Edizioni il Ciliegio e dedicata all’arte contemporanea raccontata ai bambini. Voglio provare a trasferirvi l’incredibile esperienza di raccontare a bambini l’affascinante mondo dell’arte e le sue numerose sfaccettature. All’uscita del libro in molti mi hanno chiesto, soprattutto mamme, come fosse possibile raccontare ai bambini piccoli l’opera di Marina Abramovic. Marina è infatti nota per le sue performance estreme e apparentemente molto distanti dalla sfera emotiva di un bambino. È vero, le performance di Marina sono estreme ma parlano di emozioni. La nostra vita è fatta di emozioni: belle o brutte che siano fanno parte della nostra vita. Fermarci ad ascoltare il nostro corpo, che si modifica perché siamo felici o perché abbiamo paura è un modo per imparare a conoscerci in maniera più profonda e per comprendere ciò che ci fa star bene e ciò che non ci piace.

Prima dell’uscita del libro avevo avuto modo di sperimentare alcune delle performance più note di Marina con un pubblico di bambini dai tre ai dieci anni e nei mesi successivi all’uscita del libro ho avuto la possibilità di sperimentare ancora con diversi gruppi di bambini, ma anche con molti genitori alcune performance. Ho riproposto la performance L’artista è presente, nota soprattutto per l’episodio al Moma di New York, dove nel 2010, durante l'importante retrospettiva dedicata a Marina Abramovic, l'artista è rimasta seduta immobile su una sedia per sette ore ogni giorno, dal 14 marzo al 31 maggio, guardando negli occhi senza parlare chiunque volesse sedersi davanti a lei. Il primo giorno ha ricevuto una visita inaspettata quella di Ulay. Ulay e Marina dopo una relazione sentimentale durata dodici anni non avevano mai più lavorato insieme. Ulay si siede inaspettatamente davanti a lei, e Marina tende le braccia verso di lui.


La forza di questa performance è emersa ogni volta che l’ho proposta ad i bambini, lasciando a loro la facoltà di scegliere con chi trascorrere alcuni minuti di silenzio guardandosi solo negli occhi. A volte ho cambiando io stessa l’ordine dei presenti. Mamme con mamme, bimbi con i loro amici , bimbi con le proprie mamme, io stessa con persone mai viste prima. Ogni volta si è creato un intenso silenzio ricco di emozione.
Ho riproposto anche un'altra famosa Performance di Marina Imponderabilia, 1977 . Ho mostrato ai bambini ed ai genitori l’illustrazione del libro e ho poi provato a riprodurla con degli elastici. Giocando sull’equilibrio e sulla capacità di fidarsi dell’altro. È stato interessante osservare i più piccoli mentre conversano sulla maniera migliore per cercare l’equilibrio. È stato molto bello vedere i più grandi che trovando più facilmente l’equilibrio si sono poi guardati a lungo negli occhi in silenzio.




A fine laboratorio i bambini hanno disegnato le loro emozioni….

Il progetto nasce dalla convinzione che alcuni concetti complessi possano essere compresi anche dai più piccoli e che l’arte con il suo forte potere di comunicazione possa essere un mezzo per aiutare a far comprendere ai bambini il complesso mondo degli adulti e ad avvicinarli alla vita. Come riportato nell’introduzione del Libro: «Questo libro è quindi un progetto dinamico ed è da leggere e da utilizzare per costruire ogni volta qualcosa di nuovo con noi stessi e con i nostri figli, quando sono molto piccoli aiutandoli a cogliere le situazioni più vicine alla loro sfera emotiva, quando sono più grandi lasciando che siano loro stessi a leggerlo cogliendo direttamente e in maniera più profonda sfumature sempre nuove».

A Luglio 2017 uscirà il prossimo volume della collana dedicato alla Street Art e a Banksy e il progetto di un nuovo laboratorio attraverso il quale raccontarlo ai piccoli lettori ed ai loro genitori.


The Abramovic MethodFOR KIDS





26/05/17

A PROPOSITO DI EVEREST: SUL SENSO DELLA MONTAGNA

Adriano Favole su La Lettura di domenica 21 maggio ha scritto: “… la responsabilità dell’uomo, onde evitare la Fine, è quella di garantire un rapporto armonico tra gli esseri viventi”. Io aggiungerei: “…e la Natura”. Nell’articolo Favole illustrava i rischi dell’Antropocene, un nuovo tempo caratterizzato dalla crescente fragilità della Terra. Ma a rendere fragile la Terra è l’uomo, che nel corso degli ultimi tre secoli ha drasticamente cambiato l’ambiente in cui vive.
L’islandese di Leopardi incontra la personificazione della Natura nel deserto africano, e le dice apertamente di odiata perché ovunque egli sia andato, in qualsiasi luogo abbia messo piede, Lei, la Natura, lo ha pungolato, rendendogli la vita poco agiata. Tuttavia l’islandese odia la Natura, ma non si sogna neppure per un momento di non portarle il rispetto che merita. La rispetta anche quando Lei gli fa sapere che i tormenti o le gioie degli uomini le sono del tutto indifferenti. Che, Lei, la Natura, non fa né il bene né il male di nessuno.
Quando stamattina, Danilo Di Gangi mi ha spedito il suo articolo, pregandomi di pubblicarlo, ho capito che certe sfide l’uomo le perde in partenza: le perde nel momento stesso in cui dimentica l’armonia di cui ha scritto Favole; le perde quando, con arroganza, si ostina a ripararsi dal vento e dalla sabbia che seppelliscono l’islandese di Leopardi.
Danilo ha scritto un articolo di denuncia e di amore per l’Everest: la montagna più alta che è diventato un business commerciale, un business che molti pagano al prezzo della vita.

i.b.     


Maggio.
Stagione di ascensioni sulla montagna più alta della Terra, conosciuta dagli occidentali come Everest. Ogni anno, in questo mese, si possono leggere più o meno gli stessi titoli sui rotocalchi e sulle pagine web, una drammatica litania ripetitiva. Ogni anno l’idiozia umana è più forte del valore della vita stessa.

Maggio 2017.
Ennesimo dramma sull'Everest. Il dipartimento nepalese del Turismo conferma la morte di quattro scalatori impegnati in tre diverse ascese. Inizialmente disperso e, poi, recuperato senza vita, anche un quinto scalatore – indiano -, che si è sentito male nella discesa dalla vetta. Al campo sud, a 8.000 metri, è stato trovato privo di sensi lo sherpa che lo accompagnava. Al campo 4 avanzato, altri quattro alpinisti sono stati trovati morti in tenda: due nepalesi e due occidentali. Negli ultimi giorni di questo funereo mese, circa dodici scalatori, in evidenti difficoltà nel tentativo di raggiungere la cima, sono stati tratti in salvo scampando la morte. Tuttavia, ve ne sono ancora oltre un centinaio che stanno risalendo il versante sud, cercando di concludere l'ascensione prima che i forti venti previsti rendano impossibile l'ascesa. La storia si ripete.

Maggio 2014.
Diciassette sherpa muoiono sotto una valanga di ghiaccio sull’Ice Fall - la prima temibile seraccata da superare nella salita verso l’Everest - mentre stanno approntando le scale e le corde per i turisti d’alta quota. È la più grave tragedia nella storia dell'alpinismo sull'Himalaya. Il gioco si ferma perché gli sherpa si rifiutano di proseguire i lavori; rivendicano migliori condizioni economiche, di sicurezza e di indennità per le loro famiglie - nel caso dovessero perire - oltre alla non applicazione delle misure punitive per coloro che si rifiutassero di fissare corde e scale durante la stagione. Tuttavia, il governo nepalese cerca con ogni mezzo di disinnescare le tensioni, poiché l’industria del trekking e delle scalate rappresenta una miniera d’oro. Il business supera di gran lunga qualsiasi tragedia possa capitare e qualsiasi perdita di vite umane. Tanto per capirci ed essere chiari, il progetto di scalare l'Everest può costare fino a 100.000 dollari a ciascun scalatore, mentre uno sherpa, per la sua attività di due-tre mesi l'anno, guadagna fra 3.000 e 6.000 dollari.

Maggio2015.
Ancora morti, tanti. Al campo base della montagna ventidue persone periscono per il ghiacciaio franato dopo la terribile scossa di terremoto che ha colpito il Nepal - magnitudo 7.6 -. Per rispetto delle migliaia di vittime avvenute in tutto il paese, le spedizioni alpinistiche vengono bloccate.

Maggio 2016.
Altri morti. Sei in una sola settimana. Per ictus, edemi cerebrali, sfinimento, ipossia. Decine i feriti: per congelamenti, cecità da neve e malesseri da altitudine. È un bollettino di guerra dell’alta quota. Ed è solo quello degli ultimi quattro anni.

Come mai nessuno corre ai ripari? Di chi è la colpa di tutto ciò? Tante sono le responsabilità. In primis, delle autorità governative nepalesi. Il dipartimento del Turismo ha rilasciato quest'anno un numero di permessi record per le scalate di primavera: quasi 400. I permessi rendono bene, sono lucrosi, sebbene, negli ultimi tempi, i prezzi si siano più che dimezzati. Oggi, un permesso di ascesa costa “solo” 11.000 dollari. Ogni primavera, il governo incassa dai 2 ai 2,5 milioni di euro e, nel caso di annullamento della stagione - per calamità naturali, come già è avvenuto - dovrebbe restituirli alle agenzie specializzate. Tuttavia, sebbene nessuno ci pensi mai - e appaia abbastanza macabro -, è lucroso, e molto, anche il business del recupero dei cadaveri con gli elicotteri - i familiari non vogliono che vengano calpestati da centinaia di altri scalatori e, molte volte, ne richiedono la restituzione -, impresa costosissima. Da anni si parla di porre un numero chiuso a tutela della montagna e dell’ambiente circostante, invano. Troppo grande è il business. Le metastasi, in questa parte della Terra, sono altresì facilmente alimentabili. E così, negli anni Novanta, sono comparse le prime spedizioni commerciali: il vero cancro dell’Everest. Promettono di accompagnare qualsiasi persona, capace o incapace, sulla cima, in cambio di denaro. Forniscono servizi a richiesta, certo, e continuano a esistere perché vi sono le richieste. Ma è ancora moralmente accettabile dopo centinaia di morti? Le spedizioni commerciali organizzate in Europa, Nuova Zelanda e Nepal non sono buona cosa. Non lo sono perché sviliscono la montagna, dissacrano i luoghi, portano alla degenerazione dell’alpinismo, all’imbarbarimento estetico, all’annientamento dei valori culturali delle popolazioni autoctone. Non lo sono perché riducono la dignità del monte in una banale attrazione da parco giochi, dove conta solo più la dimensione del primato da raggiungere a ogni costo, l’evento commerciale, lo show. La montagna non è una gara sportiva dove il primo posto esalta la performance, non è da salire a tutti i costi, piuttosto un percorso da affrontare con umiltà, con i propri mezzi e capacità, in totale sintonia con la natura, per ricordare, sempre e comunque, la nostra infinitesimale presenza nei confronti dell’Universo. Qualcuno ancora se lo ricorda? Anche tra i cosiddetti “veri alpinisti” - non “gli “ignoranti d’alta quota” -, i duri e puri, i socialmente corretti che, però, vendono le loro “imprese” al grande business commerciale. Qualcuno pone mai un pensiero all’immane disastro ecologico che queste spedizioni causano? Avere 400 alpinisti sulla montagna significa avere altrettante persone, se non di più, tra cuochi, ragazzotti di cucina, portatori d’alta quota e sherpa. Quasi mille persone! Una tonnellata di feci al giorno prodotte al solo campo base, portate a spalla e seppellite sulla morena secca più a valle, e, nelle giornate di bel tempo, almeno un’altra mezza tonnellata tra campo due, tre e quattro. Oltre ad altrettante quantità di urina e ancora tonnellate di rifiuti secchi prodotte in ogni stagione: bombole, tende, materassini, sacchi a pelo e corde abbandonati in quota.

Vogliamo parlare di sostenibilità ambientale in uno dei posti più belli e fragili del pianeta? Di questo bisognerebbe occuparsi e non del business o dello smisurato Ego del 99 per cento degli alpinisti o pseudo tali o perfetti “ignoranti della montagna” che giungono qui, asiatici o occidentali che siano. Le metastasi di questo cancro si moltiplicano velocemente. Laddove non bastano le spedizioni commerciali a banalizzare, svilire, annientare e distruggere, ci pensa la nuova frontiera dell’alpinismo, dove la parola d’ordine è l’abbattimento del limite: sempre più veloce, sempre più ripido, sempre più lungo, sempre più difficile. Salite e discese in giornata, concatenamenti di vette sopra gli 8.000 metri, salite, discese, riposi ridotti e poi ripartenze e, magari, fra qualche tempo, salite senza scarpe d'inverno o in verticale sulle mani. Questa folle corsa all’idolatria personale e alla smisurata considerazione del proprio Ego non fa che condurre alla terribile e deleteria illusione che non vi siano più limiti. Tutto è possibile, anche l’impossibile. E così passiamo dai primi mercenari della montagna, che in cambio di 40.000 dollari portavano tutti sulla cima dell’Everest, ai “cercatori di primati” odierni, che inseguono qualsiasi obiettivo - più o meno folle - per stabilire un nuovo record. E poi, si tratterà davvero di un nuovo record? I fedelissimi dicono di sì, gli scettici dicono di no. Qualcuno contesta che il punto di partenza non coincida con il punto di arrivo. Il record non vale. Ancora, fanno notare che altri scalatori e scalatrici pare siano saliti in vetta all'Everest due volte in pochi giorni. Allora, il temerario di turno, per mettere tutti a tacere, dice: «mi riposo qualche giorno e poi ritento». Nel gaudio e nell’entusiasmo generale dei simpatizzanti. Perché nessuno riflette mai sui messaggi devastanti che queste “imprese” portano con sé. Siamo tornati al mito del superuomo. L’essere umano può tutto: è questo il messaggio che viene trasmesso alle nuove generazioni. Non esiste limite al limite. D'altronde, quasi un secolo fa, George Mallory - un alpinista inglese morto sull’Everest nel 1924, che secondo alcuni raggiunse la vetta vent’anni prima di Tenzing Norgay e Sir Edmund Hillary - disse che la vetta dell’Everest è un simbolo “del desiderio dell’umanità di conquistare l’Universo. La storia si ripete, sempre in negativo. E tutti ne siamo corresponsabili. Anche solo mettendo migliaia di “like” sulle pagine che raccontano simili “imprese”.

Tutto è possibile: anche scalare la montagna senza permesso. Impresa tentata qualche settimana fa da un sudafricano, multato, arrestato e fuggito rocambolescamente, nascondendosi nelle grotte. Condotto in prigione, è ora libero su cauzione, senza però aver riavuto il passaporto. L’aspetto più paradossale è però rappresentato da ciò che ha mosso l’uomo ad attuare questo piano. Per sua stessa ammissione, voleva salire l’Everest dal versante nepalese e scendere da quello tibetano - senza nemmeno pensare alle conseguenze con le autorità cinesi - e, soprattutto, con una totale assenza di esperienza alpinistica: «Ho imparato a scalare in vista di questa impresa leggendo libri e guardando video su Youtube» avrebbe dichiarato. L’intenzione era di documentare il tutto per produrre un libro e un film. Tutto è possibile: anche perdere completamente la connessione con la realtà. Gli stessi effetti che l’alta quota provoca sulla mente nella “zona della morte” sono provocati - a 0 metri slm - dal desiderio di compiere qualcosa di unico, dal desiderio di realizzare un primato, dal voler a ogni costo apparire come realizzatori di un’impresa. In realtà, la vera “impresa” sarebbe ritrovare il senso delle cose, il senso della montagna, il senso dell’umiltà dentro noi stessi. La vera impresa sarebbe riconoscere la smisurata superiorità della Natura di fronte all’essere umano.  La vera “impresa” sarebbe ristabilire un rapporto corretto con ciò che ci circonda. La vera “impresa” sarebbe tornare a una convivenza sostenibile con la Madre Terra. La vera “impresa” sarebbe riportare l’Everest alla sua essenza primordiale, dopo averlo trasformato in un set delle meraviglie e in una avvilente passerella telematica. La vera “impresa” sarebbe riorientare l’opinione pubblica vero “un senso della montagna” capace di riconoscerne il valore altissimo e profondo. Esplorare luoghi come questi dovrebbe portare a comprendere la forza di ciò che è superiore a noi, la potenza degli elementi, il rapporto tra terra e cielo e tra essere umano e spirito. Dovrebbe far nascere un rispetto profondissimo per le imponenti cime, per i culti degli abitanti del posto, per un “modus vivendi” in profonda simbiosi con una natura al contempo creatrice e distruttrice.

Il Chomulungma, la montagna più alta della Terra, è sempre stata considerata e venerata come una dea dai tibetani, la dea Madre della Terra. Gli sherpa nepalesi la reputavano tale e la chiamavano Sagarmatha, la dea del Cielo. Un tempo queste zone erano intrise di profonda sacralità e gli abitanti del luogo ossequiavano le alte cime come dimore di dei e divinità. Oggigiorno, la loro venerabilità è stata assolutamente vituperata, in nome del business e del successo. Fino a quando non ritroveremo, con umiltà, quale sia il nostro ruolo all’interno dell’Universo non potremo evolvere, continueremo a ragionare e comportarci solo in funzione del nostro Ego. Una cancerosa abitudine che svuota di valore la religiosità di territori che hanno rappresentato per secoli la dimora di un principio superiore e snatura credenze e tradizioni di un popolo.

«Salire sull’Everest era una ricerca del tutto estranea a noi sherpa; era sconsiderata, insensata. Eppure, con il passare del tempo, avrebbe finito per assorbirci e cambiarci irrevocabilmente» ha  scritto il nipote di Tenzing Norgay, il primo sherpa a salire sull’Everest. E così è stato. E tutti, ora più che mai, dobbiamo difendere questi luoghi sacri e non ridurli a un grande luna park dove ognuno vuole essere protagonista. Le tante vite spezzate sono reali. E nessuno dica che sono un “tributo alla montagna”. Lo sono, piuttosto, all’idiozia umana.


Danilo Di Gangi

Nota del curatore del blog e della Casa Editrice: Gli argomenti affrontati in questo articolo sono di esclusiva responsabilità dell’autore del testo pubblicato


Danilo Di Gangi
Danilo Di Gangi ha pubblicato con Edizioni il Ciliegio il libro Nepal fra terra e cielo. Nato a Cuneo,  dove risiede, Di Gangi è uno scrittore, un viaggiatore e un insegnante: ha pubblicato per le edizioni L’Arciere: Cieli d’infinito. Mongolia, terra senza tempo (2003); Il Gioiello di neve. Kailash, l’essenza del Tibet (2004); Fra barbari e dei. La vera politica cinese in Tibet (2008). Per le edizioni Campanotto: Siberia (in)contaminata (2010). Per Edizioni Il Ciliegio ha pubblicato anche: Viaggio al limitare del tempo. Un racconto esoterico (2010); Lungo come l’Indo (2012). Per le edizioni Pietre Vive: Forse spazi (2013), raccolta di poesie e immagini.






11/05/17

Contro le mafie con "Il profumo del Maestrale". A Buccinasco la trasposizione teatrale.



Dal romanzo allo spettacolo teatrale. “Il profumo del maestrale” il libro di denuncia conto la criminalità organizzata, scritto da Alessandra Sala, va in scena a Buccinasco domenica 21 maggio all’Auditorium Fagnana di via Tiziano.

Lo spettacolo è l’ultimo appuntamento della rassegna Buccinasco contro le mafie, un festival culturale nato cinque anni fa per volontà dell’Amministrazione comunale per affermare l’impegno di questo comune in favore della legalità e in contrasto alle mafie. Ma soprattutto per non dimenticare e fare memoria delle vittime della criminalità organizzata e della storia stessa della cittadina del Sud ovest milanese definita la Platì del Nord. Una rassegna dal titolo chiaro e diretto che ha visto protagonisti, insieme all’Amministrazione comunale, scuole, associazioni, parrocchie, biblioteca, magistrati, artisti, giornalisti, scrittori e il mondo dello sport.

Come è noto, Buccinasco è sotto la lente di ingrandimento di media e magistratura per la presenza massiccia della ‘ndrangheta. La nostra città non può e non vuole dimenticare la propria storia ma non deve rinunciare all’idea di un futuro diverso: è necessario parlarne per evitare l’oblio e l’omertà che impediscono quella necessaria reazione civile per rendere il territorio inospitale per la criminalità organizzata.
Ogni anno si propongono agli studenti e alla cittadinanza momenti di riflessione attraverso linguaggi diversi. Incontri, laboratori e spettacoli per bambini e ragazzi – in 5 anni coinvolti oltre 3 mila studenti – mostre, concerti, percorsi tra i beni confiscati, confronti con magistrati, autori e giornalisti, reading letterari e naturalmente la lettura dei nomi delle 900 vittime innocenti di tutte le mafie. 

«Ogni libro nasce dal desiderio di raccontare qualcosa di sé o delle persone care. Questa storia è nata per narrare ai bambini una storia di giustizia e legalità perché, come ha dichiarato anni fa Antonino Caponnetto padre del pool antimafia: “La mafia teme la scuola più della giustizia. L’istruzione taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa” – spiega Alessandra Sala – Parlarne, ma come? Mi sono chiesta, così ho pensato che potevo affrontare l’argomento attraverso un ragazzino a cui vengono uccisi i genitori sotto gli occhi. La tragedia scatena nel cuore del ragazzo innumerevoli domande: perché è successo? Chi erano i miei genitori? Avevano stretto un accordo con la ‘ndrangheta o erano solo delle vittime? Accanto al protagonista ho fatto ruotare diversi personaggi, tra cui Rino: il sindaco ecologista. Per questa figura mi sono ispirata all’attuale vicesindaco di Buccinasco. Un uomo perbene, che svolge il suo lavoro con rigore e passione. La stessa passione che mi ha portato a finire la mia storia, iniziata in Calabria, proprio a Buccinasco città dove abito. Una città sotto la lente di ingrandimento di media e magistratura per la presenza massiccia della ‘ndrangheta. Una città dove vivono tante persone speciali che lottano  per creare un futuro diverso per i propri figli e per togliere da Wikipedia l’etichetta di Buccinasco “culla della ‘ndrangheta.”.»


Il profumo del maestrale



La trasposizione del libro è stata curata da Messinscena Teatro e sarà rappresentata domenica 21 maggio alle 16.
Lo spettacolo, come nel libro, racconta la storia di un ragazzino che perde all’improvviso i genitori, uccisi davanti ai suoi occhi sotto i colpi della ‘ndrangheta. L’orfano sarà allontanato dalla sua città per entrare nel programma di protezione testimoni e affidato a una famiglia che lo aiuterà a sciogliere il dolore e a scoprire la verità sulla morte dei suoi genitori.

Alessandra Sala risiede a Milano. È scrittrice, giornalista professionista, copywriter pubblicitaria, autrice di testi radiofonici e televisivi. Ha pubblicato numerosi libri per bambini e ragazzi: Con Edizioni il Ciliegio ha pubblicato Cacciatrice di calzini (2014), Quattro ali per volare, che si è rivelato il libro più venduto da questa casa editrice, nel 2014, e Cotton Blu, orsetto dal codino blu (2016).


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18/04/17

Gli amori dell'Orlando Furioso

Eccoci giunti all'ultima puntata dell'approfondimento sull'Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Uno dei poemi cavallereschi più amati della nostra letteratura. Bianca Degli Espositi firma il suo ultimo articolo riguardante tale tema. I suoi contributi resteranno a disposizione di chiunque li voglia leggere.


Le donne, i cavallier, l’arme e, infine,
GLI AMORI

Ché non è in somma Amor se non insania… (XXIV 1) scrive l’Ariosto.
Molti sono gli innamorati nell’Orlando Furioso, il poeta li osserva con ironica benevolenza e il pizzico di paternalismo di chi “c’è già passato”.
Angelica e Medoro, Orlando impazzito e rinsavito, Bradamante e Ruggiero. I sentieri degli innamorati sono infiniti e il lettore può scegliere quale gli piace di più.
Io preferisco la storia di Isabella, principessa musulmana di Galizia. È dolce e determinata, sensibile e coraggiosa, non combatte come Bradamante o Marfisa, non civetta come Doralice, non usa magie, ma non si arrende mai.
La sua è una storia di amore e di morte e, unica nel poema, commovente.
Innamorata del cristiano Zerbino, per raggiungerlo gliene capitano di tutti i colori. Sopravvissuta a una tempesta in mare, Odorico tenta di violentarla ma lei, quando lo vede più sempre cupido e villano…si difende con piedi e con mano, adopera sin l’ugne e il morso, gli pela il mento e gli graffia la pelle (XIII 28), grida tanto che la sentono dei pirati… il villano scappa e lei viene rinchiusa in una grotta, in attesa di essere venduta.
La trova Orlando (e noi con lui) alla fine del XII canto. È una quindicenne bella sì, che facea il loco salvatico parere un paradiso (XII 91), dopo Angelica, la più bella è lei.
Neanche a dirlo, Orlando stermina i pirati come fossero un gran drappel di biscie (XIII 38) e la accompagna da Zerbino. Lui nel frattempo ha rischiato in vario modo la pelle e si è coperto di gloria in difesa del re Carlo.
I due innamorati non credono ai loro occhi, si baciano, lei piange di gioia, lui giura ad Orlando eterna fedeltà.
Tutto sembra andare per il meglio, invece, nel giro di poche ottave, Zerbino, con gran desolazione del lettore e di Isabella, muore per mano dell’antipatico Mandricardo.
Isabella gli giura eterna fedeltà e sceglie un destino di casta solitudine.   
La incontra Rodomonte, decisamente sfortunato in amore, che non vede l’ora di farla sua. Lei non può opporre resistenza a quel gigante, non è armata e non sa combattere, ma è molto più intelligente di lui e lo frega.
Dice di aver inventato un’acqua che rende invulnerabili, se ne bagna il collo e le spalle e lo invita a provare su di lei la spada. Lui le crede e… le stacca dal collo il capo.
Quel fe’ tre balzi; e funne udita chiara voce che uscendo nominò  Zerbino.
Fe’ l’alma casta al terzo ciel ritorno, e in braccio al suo Zerbin si ricondusse. (XXIX 26-30).
È la vittoria dei due innamorati. Una sorta di lieto fine che non smette di commuovermi.
Ora tocca a Rodomonte diventar matto. Erige una monumentale tomba a Isabella, sfida i cavalieri di passaggio e vi appende le loro armi. È diventato quasi buono, a modo suo.
Lo ucciderà Ruggiero in un duello finale, assicurando così la vittoria cristiana.
Alle squallide ripe di Acheronte,
Sciolta dal corpo più fredda che ghiaccio,
Bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa.
Che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.(XLVI 140)
Così finisce Rodomonte, e finisce il poema.


Bianca Degli Espositi
Bianca Degli Esposti è nata nel 1952 ha conseguito la laurea in Filosofia a Bologna, ha insegnato per nove anni letteratura italiana nei licei internazionali in Francia e in Marocco e ha collaborato con l’Istituto di Cultura Italiano a Rabat. Ora è in pensione e vive a Mentone. Insieme ad Annamaria Zucconi forma il duo delle signore in giallo de Il Ciliegio. Hanno pubblicato L’appartamentode Place Garibaldì (2016); questo mese di marzo 2017 è stato pubblicato il secondo romanzo L’immobiliaredei fratelli Morin.




L'immobiliare dei fratelli Morin



















L'appartamento di Place Garibaldì