Prosegue il viaggio tra i luoghi del romanzo La carezza del ragno
Il quartiere dove abita Leoncavallo è quello di san Giovanni
ed è il mio quartiere di Roma d'adozione: a San Giovanni sono andata a scuola,
attraversando mezza città sullo sferragliante trenino della Casilina (all'epoca
ancora dotato di sorprendenti sedili di legno in tutto simili a quelli d'un
qualunque treno de La casa nella prateria) e sempre qui ho abitato per
la prima volta da sola, anche se in due case diverse.
La prima, quella della terrazza con i mirtilli alcolici, è
svanita quasi subito, inghiottita nell'occhio del ciclone d'un acrimonioso
divorzio, reso ancor più acrimonioso dal fatto che non c'era in realtà mai
stato nessun matrimonio; la seconda, a tutti gli effetti la casa del mio cuore,
alta sui tetti e con la finestra della cucina che guardava direttamente sulla
basilica che il sole del tramonto tingeva di rosso, ha visto la nascita della
piccola Julia, si è immediatamente dopo rivelata troppo piccola ed è stata
lacrimosamente venduta, ma non credo ci abbia dimenticato, come noi non la
dimenticheremo.
A proposito, com'è che ultimamente così tanti uomini
svaniscono nel nulla subito dopo aver comprato casa con la loro donna, che
quindi rimane da sola a gestire non solo il lutto della separazione, ma anche
le bollette e la spartizione dei mobili? Una mia amica, dopo dieci anni di
convivenza e il laborioso acquisto d'un appartamento con relativa
ristrutturazione, è stata lasciata via email dal compagno, il quale le
ha comunicato dall'altra parte del mondo - dove si trovava per lavoro -
d'essersi reso conto che il silenzio e la pura luce dei ghiacciai gli bastavano
per essere felice; qualsiasi altra forma di vita avrebbe potuto incrinare tale
perfezione.
Un'altra, con due bambini, sta cercando d'affrontare il
fatto che il marito, pur già impiegato e con uno stipendio a cinque stelle, ha
intenzione d'accettare una proposta di lavoro che prevede un trasferimento di
tre anni nel cuore della foresta brasiliana.
Un tipo di cui mi hanno raccontato ha aspettato che la
fidanzata scegliesse e portasse a casa dodici sedie azzurro delavé con
tavolo in tinta per la sala da pranzo, le ha fatte salire una a una con
l'ascensore e sull'ultima ha appiccicato un biglietto con cui la salutava, è
stato bello, grazie, per me nuovi orizzonti, parto domani per Edimburgo.
E io stessa, come sempre all'avanguardia, dieci anni fa sono
stata lasciata dal mio fidanzato dopo soli tre giorni d'una burrascosa,
delirante convivenza in cui i nostri principali motivi d'attrito erano stati la
superiorità dei piatti di vetro su quelli in ceramica (ferma restando
l'assoluta supremazia della porcellana) e il fatto che il suo nuovo lavoro
l'avrebbe portato a dormire fuori casa cinque giorni su sette. Non che fosse in
un'altra città: era in un altro quartiere.
E' come se all'improvviso svariati tizi senza spina dorsale,
che fino a poco tempo fa si barcamenavano malmostosi, avessero trionfalmente
individuato nel lavoro un magnifico, inoppugnabile stratagemma per darsela a
gambe. Senza neppure il fastidio di dover atteggiare le espressioni del volto a
una compunta rassegnazione: si lascia un biglietto, una telefonata sulla
segreteria (succede, vi giuro), un'email, e via.
Non so. Capita che l'amore finisca, ma cercate, vi prego,
cari fuggitivi, di preservarne almeno quel tanto che basta a dire addio di
persona alle vostre compagne. La dignità personale, il semplice buon gusto e
quello che mio padre chiamava “esser signori” (“Sii sempre un signore”, mi
diceva, perché per lui si trattava d'un concetto astratto, senza distinzione di
sesso, età, censo o religione, e credo avesse ragione) ve ne saranno grati,
credetemi.
Tornando al quartiere di San Giovanni, come dicevo è in
assoluto il posto di Roma che amo di più, e anche del mondo, forse. Per me
rappresenta la libertà, il primo stipendio, i giri di shopping con le
amiche o con mia madre al mercatino di via Sannio, i ristoranti cinesi con le
vetrine di legno intagliato, le passeggiate con mio marito e mia figlia che
sonnecchia nel passeggino e gli appuntamenti davanti scuola il sabato
pomeriggio, sulla faccia tre dita di trucco spalmato dalla sorella maggiore.
Leoncavallo abita un po' sul confine, nel senso che il suo
palazzo fa angolo con via Merulana e via Merulana è già oltre, è già centro,
stazione, piazza Vittorio: ancor più rumore, traffico, possibilità. A via
Merulana c'è il commissariato dove lavora e perciò l'ho voluto in qualche modo
dividere, a far da spartiacque tra due mondi. Come ho già accennato l'interno
del palazzo - col suo cortile vasto e raccolto, la casetta del portinaio dai
tre scalini e la lampada accesa - non sono reali, nel senso che appunto della
casa dove ho pensato di far abitare il mio commissario io conosco solo quello
che si vede, ossia l'imponente facciata color burro e le finestre dalle imposte
grigio cielo. L'interno è invece ricalcato su quello d'un paio di palazzi a due
passi da piazzale San Giovanni, palazzi il cui aspetto dignitosamente umbertino
e i cui portoni di legno lucido celano cortili fascinosamente popolari quanto
quelli d'una commedia di Eduardo.
Alla prossima e buone letture.
Paola Rocco
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