Non solo libri, ma anche cinema. Dopotutto, il cinema, fin dall'avvento delle prime pellicole si è alimentato di storie tratte dai libri, ma è successo anche il contrario. Ciò che accomuna le due forme di espressione è dunque sempre il desiderio innato dell'uomo di raccontare e raccontarsi.
The Dressmaker -
Quando il diavolo si veste di rosso
The Dressmaker - Il diavolo è tornato (The Dressmaker) è un film del 2015 scritto e diretto da Jocelyn
Moorhouse, basato sull'omonimo romanzo di Rosalie Ham.
Protagonista del film è Kate Winslet nel ruolo di Myrtle "Tilly"
Dunnage, affiancata da Judy Davis, Liam Hemsworth e Hugo Weaving.
Allora, oggi vi parlo d'un film che ho visto l'altra sera a
una rassegna estiva di quelle che ti propongono i film della trascorsa stagione
a un prezzo abbastanza irrisorio, motivo per cui d'estate io mio marito e mia
figlia ci spariamo minimo tre pellicole a settimana nell'ombrosa frescura della
multisala di quartiere sostanzialmente deserta - eccetto quelle nove o dieci
persone malate di cinema come noi. L'atmosfera in queste occasioni è un po'
quella delle vecchie sale di paese, si parla a voce non tanto bassa fino a un
secondo prima dell'inizio e c'è sempre qualche bambino che non ha capito e
chiede spiegazioni a gola spiegata nel bel mezzo delle scene clou.
Il film (scritto e diretto da Jocelyn Moorhouse e basato
sull'omonimo romanzo di Rosalie Ham) s'intitola The Dressmaker – Il diavolo
è tornato e si svolge in Australia negli anni '50. Siccome l'Australia e
gli anni '50 sono tra le mie condizioni esistenziali favorite, sulla carta
c'erano buone probabilità che il film mi piacesse, ed ecco che in effetti mi è
piaciuto. C'è Kate Winslet che fa la modista a Parigi e torna nel desolato
avamposto del deserto australiano che l'ha vista nascere, indesiderato frutto
della colpa commessa dalla madre (una come sempre fantastica Judy Davis) con un
maggiorente del posto, infido, malvagio e ipocrita come molti maggiorenti di
paese degli anni '50.
Sebbene all'inizio venga spontaneo pensare che lei sia
tornata per prendersi una rivincita mostrando i propri favolosi outfit
alle inguardabili matrone locali, nella sua riapparizione tra quelle misere
capanne e polverose viuzze c'è in effetti qualcosa di più: cacciata dal paese
appena undicenne perché accusata dell'assassinio di un suo compagno di giochi
(benché non proprio di giochi si possa parlare, quanto piuttosto di deliberati
atti di bullismo lucidamente perpetrati ai danni dell'anello debole, la piccola
illegittima senza santi in paradiso) Kate in realtà è tornata per dimostrare la
propria innocenza agli altri e anche a sé stessa, visto che di quell'evento
così traumatico la sua memoria non ha serbato traccia alcuna.
Per questo, dopo un'inutile serie di tentativi d'indurre la
madre a raccontare (frustrati dalla ferrea svagatezza di quest'ultima, che
finge di non riconoscerla per metà del film) l'indomita ragazza ha l'idea di
procurarsi le informazioni che le servono vendendo la propria abilità di
modista alle infagottatissime signore e signorine che le girano intorno a cigli
in su - e la trasformazione di queste allampanate e riarse ragazzotte in
splendidi ancorché temporanei uccelli del paradiso dagli stravaganti piumaggi
bianchi, neri e fucsia è una delle improvvise magie del film. Armata solo di
ago e filo e del proprio mento deciso Kate riesce così a ricucire anche la
propria storia: che, com'è ovvio, non la vede colpevole ma vittima della
compatta tessitura di bugie e sortilegi dei benpensanti locali, ansiosi di far
fuori il diverso, il corpo estraneo conficcatosi per sbaglio nel ventre molle
della comunità.
Dopo aver smascherato chi sapeva e non ha parlato o, peggio,
chi sapeva e ha deliberatamente alterato la verità pur di espellerla, a Kate,
rimasta trionfalmente sola sulla scena del crimine - e cioè l'intero villaggio,
una decina di capanne di legno in tutto, i cui abitanti vestiti a festa si sono
allontanati in massa per recarsi nel paese vicino ad assistere a una
competizione locale - non resta che sciogliere uno dei suoi campioni di lucida
seta rosso sangue fuori dalla porta della piccola casa sulla collina: cosparso
di benzina e dato alle fiamme, il nastro di fuoco si snoda tra quelle
pretenziose catapecchie come un serpente affamato e vorace, non lasciando in
piedi che uno scheletrico gruppo di rovine. Lei, intanto, ha già preso il treno
che la porterà via per sempre.
A me di questo film sono piaciute: la scena in cui Kate
convince il tormentato poliziotto locale a prestarle aiuto facendogli balenare
la promessa d'un meraviglioso boa di struzzo rosso; lo stesso poliziotto colto
in relax coi piedi sul tavolo e abbigliato di tutto punto con berretto,
cinturone, divisa e scarpette di raso rosa da ballerina allacciate dietro (data
l'inquadratura, i piedi si vedono per ultimi e finiscono per occupare tutto lo
schermo, melliflui e irresistibili come il muso di Kaa nel Libro della
giungla della Disney); quando Kate torna nella lurida casetta dove la madre
vive in stato d'abbandono e si dà da fare a ripulire tutto (come direbbe Guido
Gozzano, in me rivive l'anima d'una governante inglese dell'Ottocento, lo so);
i vestiti che indossa, a dominante rosso bordeaux, il mio colore preferito,
così orgogliosamente piccoloborghese; l'Australia in sé per sé, che dev'essere
un posto da pazzi; la battuta “Non parlare a me d'imbarazzo”, pronunciata dal
figlio unico di madre vedova; i dolcetti all'hashish e l'innocente scatola di
latta a fiori in cui vengono portati in dono; il sorriso che aleggia sulle
labbra della vecchia signora addormentata mentre il marito, un insopportabile
tanghero, affoga inascoltato nello stagno dietro casa.
Ma soprattutto mi piace l'allegra ferocia con cui si
raccontano il dolore e il sangue nascosti sotto l'implacabile perbenismo di
questo paesino australiano degli anni '50 e dei tantissimi paesini australiani
che ci circondano. In qualcuno, forse, ci abitiamo pure noi.
Alla prossima.
Paola Rocco
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